di LUCA TELESE
Fermi tutti. Su Mario Monti si è abbattuto il fuoco (un tempo) amico, la scimitarra affilatissima di Ezio Mauro. Un corsivo caustico che ieri – sul quotidiano di largo Fochetti – ha servito di barba e capelli i tecnici un tempo apprezzati. Dopo l’affermazione del premier che se il paese non fosse “pronto” il governo potrebbe lasciare, infatti, il direttore di Repubblica ha deciso che anche per lui la misura era colma: “Chi certifica infatti quando il paese è pronto e in base a quale canone? E soprattutto – ha scritto il direttore di Repubblica – non siamo a scuola e non tocca al governo dare voti ai cittadini. Casomai il contrario”. Ma a far cambiare opinione a Mauro, che anche nel corsivo di ieri riconosceva a Monti “disinteresse personale” e “capacità di decidere”, non è stato l’ennesimo schizzo rubizzo, l’ultima voce dal sen fuggita (in questo caso a Seul) al professore. A far scattare l’allarme rosso a Repubblica, come spiega lo stesso direttore è stata la forzatura del governo sull’articolo 18. INFATTI MAURO dice di considerare determinanti due questioni: in primo luogo la centralità del Parlamento (quello che il ministro Giarda – per dire – sfotte un giorno sì e l’altro pure, ad esempio quando cita gli emendamenti “Me-cacci & Company”). E – soprattutto – “La seconda”. Ovvero “il carico improprio di ideologismo con cui la destra si sta avviluppando a quella che chiama ‘ la libertà di licenziare’, e che rischia di trasformare l’articolo 18 in un nuovo tabù, questa volta rovesciato”. Ecco perché il direttore di Repubblica indica come via maestra il modello tedesco e chiude con l’ultima stoccata: “Il Paese è già pronto”. Ma non tutto è piano come si potrebbe immaginare. Quando la proposta del governo sul welfare fu resa nota, infatti, il fondo di Massimo Giannini sullo stesso tema, pur moderatamente critico non rompeva il cordone di solidarietà con il governo. E per giorni il quotidiano è stato un tripudio di fuochi d’artificio, tutto pieno di schede sui miracolosi risparmi dei tecnici e di titoli sobriamente entusiasti, al punto che lo stesso pezzo di Paolo Griseri sulle proteste dei giovani della Cgil davanti a Palazzo Chigi ignorando il contenuto dell’articolo annunciava una fantomatica “mini-Aspi” per i più giovani di cui non si ricorda più traccia. PER UN MESE, una domenica sì e una no (compresa l’ultima) Eugenio Scalfari dipingeva Susanna Camusso come se fosse un Marco Ferrando in gonnella. E invece adesso la Camusso vince la sua partita, e Repubblica deve implicitamente darle ragione. Domenica, al fianco di Scalfari che inspiegabilmente chiedeva alla Cgil di non difendere l’art. 18 così com’è (cosa che fa già, con il voto contrario della Fiom) c’era un pezzo di Luciano Gallino pacatamente caterpillar sulla riforma. I due articoli, per quei paradossi che abitano i giornali, sembravano casualmente impaginati uno al fianco dell’altro, e dicevano uno il contrario dell’altro. Almeno cronologicamente, quello che ha rotto la luna di miele fra Repubblica e Monti è stato il trattamento riservato al povero Bersani e al Pd. E così si è passati senza soluzione di continuità dalla foto formato poster twittata da Pier Ferdinando Casini, ai distinguo, ai dubbi, alle tirate di coda, e agli editoriali da innamorati delusi, pieni di dignità e di fermezza, come quello di Ezio Mauro di ieri. Avrà contato anche che l’editorissimo Carlo De Benedetti avesse tracciato il solco, consegnando all’intervista di Giulia Innocenzi per Servizio Pubblico parole di Fuoco sul suo ex portaborse Corrado Passera, e con una stroncatura drastica della proposta Fornero sull’art. 18? Sta di fatto che di solito era Repubblica che dava la linea, e il Pd che si divideva nel rito autoflagellatorio del ma-anche. Prima era il Pd che sognava di assomigliare a Repubblica. Adesso è Repubblica che assomiglia al Pd. Non è detto che sia un guadagno.
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