LEGGI (TUTTO D’UN FIATO) “SPINGENDO LA NOTTE PIU’ IN LA’”, PER SCOPRIRE CHE LO STATO NON PUO’ DELGARE ALLE VITTIME I PROBLEMI ETICO-POLITICI CHE NON RIESCE A RISOLVERE, CHE ANTONIA CUSTRA E’ FINITA A FARE LA SPAZZINA PERCHE’ SUO PADRE POLIZIOTTO NON LO RICORDA NESSUNO, CHE DIETRO LA SICUREZZA DI MARIO E DEI SUOI TRE FRATELLI ANCORA UNA VOLTA C’E’ UNA (GRANDE) MADRE
di LUCA TELESE
Ho letto due sere fa, tutto d’un fiato – era appena uscito – il libro di Mario Calabresi. Fra le mani, queste centottantaquattro pagine volano letteralmente, una dopo l’altra. "Spingendo la notte più in là" (Mondadori. 14.50 euro) ha una struttura apparentemente semplice, e una scrittura incredibilmente densa. Mario Calabresi alterna il filo della sua terribile storia familiare, prima e dopo l’omicidio di suo padre, a dei capitoli finestra in cui irrompe la voce di altri testimoni, "altre vittime del terrorismo". E il suo libro finisce per essere insieme un piccolo affresco, ma anche un micro-saggio sulla difficoltà del perdono e della memoria per le vittime degli anni di piombo, sulle troppe amnesie di tutti gli altri. Le anticipazioni di questi giorni, desiderose di mettere in pagina storie note, e magari di esibire il blasone oggi "riabilitato" dei Calabresi, non hanno messo bene in luce la forza delle altre storie, meno note, e più anonime, il senso ultimo di questo questa scrittura. E quindi, ovviamente, ti viene un brivido di rabbia quando la figlia del poliziotto Antonino Custrà, che Mario incontra in una cerimonia al Quirinale e insegue per farsi raccontare la sua storia, ti spiega che suo padre – ucciso in una sparatoria a Milano – è stato privato anche del suo stesso nome, e che si chiamava invece Antonio Custra. Che nessuno lo ha ricordato, men che meno nel luogo dove è stato ucciso, che il Comune di Napoli si è ricordato di lei, laureanda in sociologia, solo per offrile, in quanto vittima, “un posto da spazzina". Antonia è nata dopo l’assassinio di suo padre, porta il suo nome, e per ostinazione o carattere, la spazzina poi l’ha fatta (prima donna spazzino della città). Antonia racconta degli anni di analisi che nessuno le ha pagato, racconta della sua impossibilità di leggere le carte del processo, anche solo di mettere piede a Milano. Racconta che nessuno l’ha aiutata. E che lei, per tigna, quel posto lo ha accettato. Prima spazzina-donna di Napoli. Ecco, Calabresi tiene insieme queste storie dimenticate – di cui tendenzialmente ai giornali non importa nulla perché “non fanno notizia” – con il filo forte della sua storia. Una madre d’acciaio, che per sfamare tre figli va a fare la maestra di catechismo. Ma che quasi dieci anni dopo l’assassinio di suo marito sposa “il pittore capellone” (secondo i nonni, in realtà è un poeta e artista, Tonino Milite), e si rifà una vita e poi concepisce un altro figlio (Ubert, il quarto!). Tutti i capitoli trasudano il senso enorme di dignità, di decoro, di culto della memoria, di dovere civile che emanano da questa figura, come le riunioni intorno al tavolo di famiglia per decidere se costituirsi parte civile o meno. C’è anche la storia privata. Mario che si imparenta con la famiglia Ginzburg, di cui è membro Carlo, grande innocentista sofrista, Mario che guarda il passaporto delle sue figlie con il doppio cognome Calabresi-Ginzburg e si rende conto che quella è la prova che è effettivamente trascorso un secolo, Mario che estrae dolorose schegge della sua memoria più privata, e lo fa senza un filo di retorica o di peso. In una pagina c’è l’uomo che spiega come sia medievale (ha ragione) questa sorta di ordalia per cui lo stato vorrebbe che a sdoganare le beghe giudiziario-processuali che non sa risolvere da solo fossero le famiglie delle vittime. Nell’altra, per dire, c’è il bambino che a scuola non si avvicinava alla vasca della sabbia. Perché? Perché in un innocente momento di giochi, quando gli altri dicevano “il mio papà mi ha insegnato a fare i castelli di sabbia”, lo aveva imprudentemente detto pure lui, ed era stato ripagato con feroce sprezzo: “Non è vero, tu il padre non ce l’hai, è morto”. Però, è sempre il Mario di oggi che vede giovani adolescenti in corteo scrivere sui muri di Roma “Calabresi Assassino” trent’anni dopo, ed era una Mario adolescente, che in una festa di ragazzi si era sentito spiegare che la vedova Calabresi faceva la bella vita “perché era stata riempita di soldi dallo Stato”, ed è un Mario di pochi mesi fa che dovendo andare in via “Calabresi”, scopre che anche quella targa è stata corredata di scritte ingiuriose. Dal libro capisci tante cose, tante. Ma a me, personalmente, ne resta soprattutto una, questa: puoi essere un bambino a cui a due anni i cattivi maestri e i sottoproletari imboniti strappano il padre a colpi di pistola davanti ad una Cinquecento blu, e che malgrado questo riesce incredibilmente a trattenere due nitidi ricordi di suo padre, e con quei ricordi riesce ad attraversare le tenebre. Ma non puoi esserlo, non ce la fai, se non hai una madre piena d’acciaio e di amore che ti sostiene. Chiudi il libro, pensi all’immagine di lei, Gemma, che rassicura Luigi Jr. e che in un pomeriggio triste gli insegna caparbiamente a non odiare (nemmeno Sofri, su cui la famiglia è convinta che la sentenza sia giusta). A lei che ricostruisce per tutta la famiglia di naufraghi superstiti la memoria sui binari ordinati della scrittura, quella della sua agenda, a lei che convince Mario a non rifiutare il posto a La Repubblica per gli strascichi inutili di una faida senza senso. A lei che conferma al figlio che quel ricordo di pennacchi, rumori e fanfara che gli ha tenuto per trent’anni leggero il cuore non è una simulazione. Sull’agenda olandese c’è scritto: “14 maggio. Gigi porta Mario a vedere la sfilata degli alpini. Rientra con paste, gelato e rose”. A lei che quella rosa, secca e screziata di rosso, l’ha tenuta per trent’anni in un cassettone, fra le cose care. Così chiudi il libro e capisci che dietro la sicurezza di Mario e di tutti quelli che sono riusciti a spingere “La notte più il là”, gira e rigira, c’è sempre una madre.
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