E' MORTO FRANCESCO COSSIGA
(AGI) – Roma, 17 ago. – Il Presidente Emerito della Repubblica Francesco Cossiga e' morto al Policlinico Gemelli alle 13.18. L'ex capo dello Stato era ricoverato in terapia intensiva dal 9 agosto per una insufficienza cardio-respiratoria, e le sue condizioni si erano improvvisamente aggravate la scorsa notte. (AGI) red 171327 AGO 10 NNNN
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Una volta andai a casa di Francesco Cossiga per un ciclo di interviste sui soldi e il potere. Gli chiesi quanto avesse dentro il portafogli: “Oh, bella – rispose – non lo so!”. Chiamò il suo caposcorta. Si fece portare un portafoglio. Scuotendolo sul tavolino dello studio, nello stupore di tutti, risultò che dentro c’erano solo un assegno in bianco e 58 centesimi in monetine. Sospirò: “Da quando sono diventato presidente della repubblica ho la cattiva abitudine di non adoperarlo più… Però è anche vero questo: Nella mia vita in denaro non conta nulla, mi è del tutto indifferente!”. Così mi raccontò subito un altro aneddoto, irresistibile: “Non finga. Leggo una velata critica nei suoi occhi…. Sappia questo: non ho mai voluto abitare nell’alloggio presidenziale. Sono in questa casa da sempre, in affitto e pago, più o meno, 3 milioni e mezzo di lire. Ebbene – sorrise l’ex presidente – tempo fa è venuto a cena, mio ospite, Antoine Bernheim, presidente delle Assicurazioni Generali che possiedono il palazzo, uno degli uomini più potenti dell’economia italiana….”. Cossiga, nella sua passione anedottica, preparava sempre il colpo di scena con teatralità, e il colpo di scena, infatti, arrivò: “Bene, il giorno dopo, per una incredibile combinazione, mi è arrivato lo sfratto. E poi la gente pensa che il Potere possa tutto…”. Era accaduto davvero. Ma lui rimase nell’appartamento.
GRAN BORGHESE E SOVRANO. Era l’immagine migliore per raccontare il misto di spartanità e di regalità che accompagnava il presidente emerito, un po’ gran borghese sassarese, un po’ sovrano in esilio. Viveva con la sua pensione da senatore, nella casa di Prati foderata di ricordi e di tecnologia, protetta dagli uomini della scorta – quasi una seconda famiglia – senza trascurare mai di ricordare (con una punta di perfidia): “Lo sa che Carlo Azeglio Ciampi gode di un milione e mezzo euro l’anno per la sua pensione di ex governatore di Bankitalia!? La differenza fra i politici e i tecnocrati è tutta qui”. Spendeva tutto in hi-tech e in viaggi era convinto difensore degli appannaggi da ex capo di Stato: “Se prevalessero le baggianate anti-Casta la politica la farebbero solo i ricchi”. Era molto contento che i cellulari glieli regalassero le ditte produttrici, come raccontava, per testarli e per farsi pubblicità: “Ho sette computer portatili, dodici linee telefoniche, dodici cellulari. E poi, ovviamente, una collezione di 12 pistole….”. Era un uomo di realpolitik e se ne vantava. Entravi a casa sua e trovavi la foto della Tatcher e le collezioni dei soldatini. Licenziando il suo ultimo libro, “Fotti il potere”, intimò all’editore Aliberti: “Ci deve essere sopra una fascetta con questa prescrizione, altrimenti non si stampa: “Tenere lontano dalla portata degli idealisti…”. E così fu.
SPIETATEZZA, REALPOLITIK E CAPELLI BIANCHI. Disse frasi feroci sui poliziotti infiltrati nei cortei negli anni settanta, suggerì che Giorgiana Masi fosse morta, nel 1977 per “fuoco amico”. Ma fu altrettanto spietato con se stesso: “Aldo Moro l’ho ucciso io”. Raccontò, e a molti altri: “Il giorno dopo il ritrovamento del cadavere, i capelli mi diventarono bianchi”. E aggiungeva: “Anche se non ho concorso ad ammazzarlo mi sento anche io assassino. Sapevo benissimo che la linea della fermezza avrebbe portato alla sua morte”. Era stato, fin dalla fine degli anni ’50, il sottosegretario alla difesa dei rapporti atlantici, “l’uomo di Gladio”, come raccontava lui stesso con autoironica civetteria: “Alla Camera – aggiungeva con orgoglio – mi presi un pugno in faccia da Gian Carlo Pajetta dopo intervento in difesa dell’intervento americano in Vietnam!”. Rivendicava un merito: “La cosa di cui vado più orgoglioso è aver schierato i missili a Comiso in risposta alla provocazione di Breznev”. Ma era anche l’unico politico che poteva dire con vanto: “Ho fatto eleggere presidente del Consiglio Massimo D’Alema, portando un ex comunista a palazzo Chigi e mettendo fine alla guerra fredda”.
COSSIGHISMO OSSIMORICO. Era, a ben vedere, l’uomo degli ossimori. Molto cattolico, ma molto liberale, amico dei Papi, ma cultore delle libertà individuali, ultrasardo ma cosmopolita, devoto ma favorevole alle Unioni civili, uomo di relazioni internazionali, ma anche partigiano di tutte le cause indipendentiste, al punto che ogni viaggio in Spagna produceva una crisi diplomatica: “Omaggiando i baschi ho fatto incazzare Aznar. La cosa mi da enorme soddisfazione….”. Militarista fino al midollo, ma tra i pochi che votò al Senato con Rifondazione contro l’intervento in Iraq: “Io sono un guerrafondaio – spiego a Claudio Sabelli Fioretti – ma le guerre si fanno quando sono ragionevoli. Esportare la democrazia è una fregnaccia!”. Esibiva con orgoglio un libro di Paolo Giovanni II con una dedica affettuosa, ma aggiungeva: “Io non mi sarei mai genuflesso davanti al Papa, come ha fatto Rutelli. Un leader politico non si inginocchia di fronte alla Chiesa. Ho un concetto laico dello Stato”.
IL PICCONATORE. Trovare un posto, una collocazione a Cossiga, nella storia, non sarà facile. Fu sicuramente e fino in fondo uomo della prima repubblica. Ma ne fu allo stesso tempo il picconatore lucido e implacabile, il suo vero esecutore testamentario. Ne era consapevole. Gli piaceva ricordare che il termine “picconatore” era stato inventato da Mario Pirani: “Se potessi tornare indietro me ne starei zitto e buono. Non ne valeva la pena. Ma ero incazzato come una belva e non potevo tacere”. Fu anche il levatore della seconda repubblica, prima come sdoganatore dei post-missini, poi del dipietrismo, poi dei post-comunisti, poi come sdoganatore dell’ultimo Craxi, (quello di Hammamet, che però definiva “latitante”), e quindi come peggiore avversario di Silvio Berlusconi (ma anche, in seguito, come suo alleato). Anche questo, in fondo lo riteneva un fallimento. A Paolo Franchi consegnò una analisi impietosa ma esatta: “La prima repubblica è morta. La seconda non è mai nata. L’ibrido che c’è adesso sta morendo. Chissà cosa sarà la terza”.
BERLUSCONI, L’ANTICRISTO. Il suo complicato rapporto di amore odio con Berlusconi meriterebbe la stesura di un saggio. Nel 1999, quando per far nascere il centrosinistra dalemiano si inventò dal nulla L’Udr, i “quattro gatti cossighiani” e “gli straccioni di Valmy”, arrivò quasi a proporsi come anti-Cavaliere: “Faccio il matto perché non avendo forza politica alle spalle per riuscire a farmi sentire devo perforare i televisori”. E poi, dopo averlo sommerso di epiteti feroci, rivelò lui stesso un siparietto delizioso: “Berlusconi mi rimproverò offeso: ‘Lei mi ha dato dell’Anticristo!’. E io: ‘Ma Cavaliere! Si tratta di una figura grandiosa della letteratura filosofica russa del XVIII secolo, uno dei capolavori di Solovev!’. Berlusconi rimase interdetto e poi mi disse: ‘Mmmh…Mi mandi il libro’”. Un quadretto che si sposava bene con un’altra battuta, davvero folgorante: “Berlusconi è più colto di quello che sembra: ma ha letto più libri contabili che testi di cultura”. Anche quando aveva dato il suo appoggio al centrodestra, Cossiga continuava a porre il problema del conflitto di interessi: “Non ho niente contro i ricchi, per me possono anche comandare: ma in democrazia lo devono fare su un mandato elettorale conferito per le loro idee, non grazie agli strumenti di persuasione che si sono procurati con le loro ricchezze”. Per spiegare le leggi ad personam ricorreva ad un ricordo di Infanzia: “Quando il commissario civile in Sardegna, il vecchio magistrato Pinna, autorizzò l’emissione di assegni circolari sostitutivi della valuta, chiesi a mio padre. Come è possibile? E lui: ‘Proitte chi comanda faghet leze’. Ovvero: perché chi comanda fa le leggi. E’ vero ancora oggi”.
FOOL SCESPIRIANO. In realtà, il fatto che frugando nell’archivio del cossighismo – volendo – si possa trovare tutto e il contrario di tutto, non deve fare velo al fatto che su alcuni temi la sua linearità sia stata indiscutibile. Così come non c’è dubbio che Cossiga fu il primo politico di primo piano a mettere in scena il privato, ad esibirlo a trasformarlo – molto prima di Berlusconi – in uno strumento di comunicazione politica: “Mi volevano mandare a casa con la camicia di forza. Dicevano che ero in preda a una terapia neuro vegetativa. In realtà facevo il matto per poter dire la verità come il fool del teatro elisabettiano”. Oppure, in un’altra delle ottocento interviste che oggi affollano l’archivio della Camera: “Mi hanno operato di colon al retto, sono malato di stanchezza cronica… Quando ho le crisi scrivo fiumi di pagine, attacco, insulto la gente, rompo le balle più del solito”. Inventando “il Club K”, e annoverandone gli altri soci, fece sapere al mondo che Ciampi aveva un tumore (e sicuramente l’interessato non ne fu contento). Regalando mutande all’onorevole Athos De Luca o una confezione di “Cluedo” al procuratore Cordova rese i suoi doni materia da corsivismo politico. Oppure trasformandosi in Dj (sempre K) per la radio2 di Sabelli Fioretti.
L’AVATER E IL GATTOSARDO. Bisognava passarci, una giornata con lui. La mattina dettava una dichiarazione alle agenzie (spesso l’Andn Kronos dell’amico Marra), poi magari chiamava un avversario politico chiedendo di polemizzarci contro duramente, infine dettava retroscena informatissimi sulla polemica a Roberto D’Agostino, che lo celebrava come “il gattosardo”, inserendo tutte le sue esternazioni in una sorta di ciclo cavalleresco segnato dall’epigrafe: “Cossiga sulla biga”. E che dire delle immagini? Una volta, insieme al fotografo Letterio Pomara, riuscimmo a convincerlo a posare con il piccone. Ma si era anche fatto fotografare in pigiama da Camera o con la divisa dei carabinieri, o mentre soffiava le candeline su una enorme torta a forma di scudocrociato. Aveva la passione per le carriere militari, ogni tanto sospirava: “Sono capitano di fregata. Ma per fare carriera dovrebbe scoppiare una guerra!”. Allo stesso tempo, ogni anno volava in Irlanda, dove si era costruito una sorta di Avatar di se stesso: “Appena arrivo a Dublino indosso vecchi vestiti, frequento i pub, seguo le tracce delle bevute di Joice in Duke’s Street. Nei locali ci sono le mie foto. E una volta una famigliari turisti italiani mi chiese: ‘Ma lei è veramente Cossiga?’”. La cosa lo divertiva immensamente: “Prima ho risposto ‘No’ per vedere le facce. Poi li ho rincorsi e ci siamo fatti la foto insieme”.
DIVINITA’ ANNOIATA. Forse però la chiave di una intera biografia era un’altra. Cossiga era, prima di tutto, un enfant prodige: “Sono stato il più giovane presidente della repubblica. E devo tutto a una caduta di bicicletta da bambino: persi due mesi di scuola e mi dovetti ritirare per recuperare, studiando ho saltato le classi arrivando alla laurea a 19 anni e mezzo”. Era vero. Era arrivato ovunque, e troppo presto. E svanita l’illusione di battezzare una nuova era politica, talvolta guardava il mondo come una divinità annoiata, talvolta con le lenti del cinismo. Avendo visto due repubbliche agonizzare, e avendo conosciuto i grandi, provava disprezzo per i figuranti della politica. Era sempre diviso: “La zuppa si fa con quello che c’è”, diceva per giustificare l’arruolamento di qualche mezzatacca fra i suoi “straccioni” udierrini. Ma poi ogni tanto scuoteva la testa: “Siamo circondati dai nani”. Una mattina lesse su un giornale una intervista del suo alleato, Clemente Mastella con cui aveva appena fondato un partito: “Cossiga è come un attaccapanni a cui appendo il cappello”. Chiamo Mario Calabresi, allora giovane cronista dell’Ansa e gli dettò una frase-bomba: “L’Udr non esiste più” (era durata solo 12 ore, il partito più breve della storia d’Italia). Le sue telefonate mattutine ad amici e nemici divennero leggendarie. Ad un’altra giornalista, Denise Pardo, consegnò un autoritratto memorabile: “Sono ciclotimico come Churchill, Kirkegaard, Newton e Roosvelt. In me c’è un omino bianco e uno nero: il primo fa le battute e va alle feste, l’altro è pascaliano e un po’ giansenista”. Le rivelò persino una sorta di anatema contro il cossighismo: “Conosco l’unico modo per neutralizzare Cossiga: sostenere che le cose che dice non fanno ridere e ridendo dei suoi discorsi seri. Ne uscirebbe distrutto” (era vero, ma nessuno riuscì a metterlo in pratica). Una volta promise solennemente: “Non rilascerò più dichiarazioni”. Resistette tre mesi, poi ruppe il voto: “Soffrivo come un pazzo”: Diceva che le prime voci sulla sua follia le aveva messe in giro De Mita: “Raccontò che mi avevano fatto l’elettrochoc, non glielo ho mai perdonato”. Aveva anche altri odi, come quello per la vedova Moro: “Se incontravi Aldo intrno alle 22.00 era una disastro, perché pur di non tornare a casa da lei rimaneva a parlarti fino a notte fonda”. Gli piaceva sfoggiare la leppa, il coltello tradizionale sardo spiegando: “Va offerto tenendolo per la lama”. In televisione, a “Cronache Marziane”, raccontò che una sera, a cena con lady Diana, scoprì che la principessa si era tolta le scarpe: “Non resistetti alla tentazione di spingerle lontano con i piedi per vedere come avrebbe reagito”. E cosa aveva fatto Lady D? “Si era alzata, scalza, come nulla fosse, e aveva raccolto le scarpe”.
DIECI CENTO COSSIGA. Alla fine degli anni novanta si inventò uno pseudonimo “Franco Mauri”, per scrivere su Libero. Ma poi, aggiunse la costruzione di una identità, il profilo di un giovane praticante, e gli fece persino pubblicare un libro corredato da una sua foto giovanile. Non pago aggiunse anche un altro psedunimo, Mauro Franchi, che pubblicava su Il Riformista: “Uno per il centrodestra e uno per il centrosinistra”, aggiunse. Conosceva tutti i giornalisti, ammirava Paolo Mieli, detestava Marco Travaglio: “Sono anti-travaglista totale. Però quanto bravo…”.
MASCHILISTA SARDO. Raccontava che Da bambino era “innamorato di Laura Siglienti figlia di Stefano, ministro delle finanze del primo governo Bonomi”. Raccontava di questo e di mille amori giovanili, ma curiosamente non raccontava mai di sua moglie, la Peppa, né conservava sue foto: “Il matrimonio è stato annullato dalla sacra Rota, i miei figli non vogliono che la citi”. Panorama gli attribuì un flirt con Federica Sciarelli, cosa talmente infondata che vinse 89 milioni in una causa. Ma lui scherzava su anche su quello: “Che male c’è nello sposarsi ad ottant’anni? Nessuno se si ha la vocazione a diventare cornuto”. E aggiungeva: “Come sardo sono maschilista. Ma credo nella società patriarcale”.
UN COMUNISTA MANCATO. Raccontava di aver letto tutto Marx e Lenin: “Da ragazzo sono stato ad un passo dal diventare comunista”. Poi, però, aggiungeva: “Ai tempi di San Francesco sarei stato domenicano. Perché tra i francescani è nato l’estremismo per cui la povertà è virtù e la ricchezza è un vizio. L’egualitarismo ha livellato tutti verso il basso, non verso l’alto”. Poi aggiungeva sornione: “Però, se fossi stato comunista sarei sicuramente diventato stalinista. Sono uno serio”. Definiva D’Alema “Il meglio figo del bigoncio”, e Veltroni “il gatto Felix”, dissertò a lungo, parlando di Romano Prodi sulla distinzione fra “Menagramo, iettatore e vindice, Romano appartiene di sicuro alla terza categoria: pericoloso per i suoi nemici”. Esibiva quasi come una prova di buona paternità il fatto che suo figlio Giuseppe fosse “anticomunista viscerale”, e che sua figlia Annamaria “innamorata dei liberal in America, credeva che Bertinotti fosse il loro corrispondente italiano e tornava per votare Rifondazione”. Appena lui era entrato al Quirinale il primo era andato in Francia e la seconda in America. Giurava, e con orgoglio, di aver visto la famosa scritta Kossiga con la kappa e la doppia essere runica “persino sul muro di Berlino”. Però al congresso del Pds si arrabbiò con Minniti: “Ma siete ammattiti che non suonate l’internazionale?”. Ottenne l’esecuzione e cantò pure lui.
AMNISTIARE TUTTI. Accettò di girare, un documentario-reality con il regista Alex Infascelli, chiudendosi per tre giorni con Adriana Faranda in una casa a discutere degli anni di piombo. Giocò la parte del gatto e del topo, e alla fine disse all’ex brigatista: “Avevate vinto. Ma non l’avevate capito”. Poi aggiunse: “Forse perché sardo, durante i 55 giorni divenni d’acciaio e di ghiaccio, privo di emozioni. Dovevo esserlo anche di fronte ai carabinieri, alla polizia, alle forze dello Stato. Poi crollai”. Di ex terroristi, rossi e neri, sembrava quasi che facesse collezione, andandoli a trovare in carcere uno dopo l’altro: “Quando Franceschini si iscrisse al Pd, un ergastolano mi chiese la tessera dell’Udr”. Francesca Mambro, che con Valerio Fioravanti progettò di ammazzarlo con fucili di grosso calibro gli portava la figlia Arianna a casa per gli auguri di Natale: “Lessi tutte le carte, il vostro era una attentato ben congegnato”, commentava, come se si trattasse di trascorsi affettuosi. Era convinto che dopo la guerra più feroce l’amnistia fosse un obbligo: tutti i terroristi fuori dal carcere, la grazia a Sofri, l’impunità per tutti i delitti politici. Allo stesso tempo minimizzava il ruolo della P2 e si arrabbiava quando gli ricordavano che nel suo ministero, durante il sequestro Moro era circondato da piduisti: “L’ho scoperto dopo!”. Quando Steve Piecznick, il consulente antiterrorismo mandato dagli americani raccontò di “Aver assolto in mandato di uccidere Moro”, lo insultò furibodamente: “E’ un ciarlatano”. Amnistiare tutti forse, voleva dire anche amnistiare se stesso. A suo parere “Piazza Fontana era opera dei fascisti”, “la strage di Bologna dei palestinesi”, e “Il missile di Ustica dei francesi, che volevano uccidere Gheddafi”. Erano le verità negate che nessun altro avrebbe potuto dire. Diceva di non avere più segreti, né scheletri negli armadi, ma conoscendolo c’è da giurare che abbia predisposto manoscritti postumi e rivelazioni. Se ne va consegnandoci l’ultimo paradosso beffardo: non lascia nessun erede politico, ma anche un enorme senso di vuoto, nel tempo angusto di questa terza repubblica che ha descritto come nessun altro “popolato di ex, e affollato di nani”.
Luca Telese
luca@lucatelese.it
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