E con questo siamo a sei. Esce domani il sesto volume della costellazione di saggi dedicati da Giampaolo Pansa alla Resistenza e alla guerra civile del ’43-‘45. Una vera e propria “pentalogia”, distillata in una miscela esplosiva difficilmente incasellabile tra i generi letterari. Un po’ romanzo, un po’ feuilleton, un po’ pamplhet e molto scavo saggistico, anche se dissimulato volutamente sotto gli stilemi della scrittura popolare, in una combinazione assolutamente inedita: con questo libro il “pansismo” si fa saga, senza contare che è già diventato feuilleton, l’anno scorso con un romanzone storico, “I tre inverni della paura”. Così, l’uscita de “I vinti non dimenticano”, può diventare l’occasione per riflettere sul senso, il merito (e i limiti) di una battaglia storiografica che è allo stesso tempo figlia e debitrice del carattere del suo autore: eclettica, sanguigna, appassionata e condotta senza rete, tra polemiche, duelli, scambio di fendenti e persino spedizioni punitive (se è vero che alla presentazione del terzo volume della saga, a Reggio Emilia, nel 2006, intervenne un drappello di contestatori).
Ma procediamo con ordine: prima di assumere la sua stratigrafica monumentalità, il “ciclo dei vinti” (quello di Pansa, non quello di Giovanni Verga) si apre nel 2003 con un libro-choc. “Il sangue dei vinti”, primo folgorante episodio della serie, esaurisce trecentomila copie in un anno, e poi diventa un libro carsico, un exemplum, un long seller, un tascabile, e persino un film (prima in sala e poi sul piccolo schermo). Il libro scatena da subito un inferno di polemiche. I “Vinti” del 1945 sono ovviamente loro, “i fascisti”, le “carogne nere”. E nel mirino di Pansa, con un libro che si alimenta scientificamente di una storiografia minore messa al bando dagli storici, ma che è frutto di una minuziosa ricerca personale c’è il mito buonista della Resistenza. Governa le sinistre, la Liberazione è un totem intoccabile, “Il sangue” incide nella carne viva perché per la prima volta costringe gli storici a confrontarsi con qualcosa che hanno sempre ignorato. Ci sono state ai margini della lotta partigiana, stragi e misfatti perpetrati all’ombra del Cln? Apriti cielo. La prima accusa che si abbatte sulla testa di Pansa – che all’epoca, non va dimenticato – è ancora condirettore de L’Espresso- è quella di aver recuperato le vecchie tesi dei libri di Giorgio Pisanò, indomabile storiografo missino. Ma è già la prima balla: Pansa tornava sui suoi passi a a ben 43 anni dalla propria tesi di laurea, che era dedicata proprio alla Resistenza nel nord Italia, e che era già diventata un libro a metà degli anni ottanta (L’esercito di Salò, Mondadori).
Ma i tratti distintivi del Sangue dei vinti erano altri, e li ritroviamo tutti anche nel prossimo volume della serie, “I vinti non dimenticano”. Pansa non usa note (indica in pagina, dentro il testo, tutte le sue fonti). Pansa usa espedienti dichiaratamente drammaturgici: ad esempio l’invenzione di Livia Bianchi, ipotetica bibliotecaria che lo aiuta nella ricerca, e che in realtà altri non è che l’ater ego narrante dello scrittore. Ma è un gioco dichiarato fin dalla prima pagina: “L’unico personaggio immaginario è lei, la bibliotecaria di Firenze che mi affianca nella resa dei conti dopo il 25 aprile. Tutto il resto – recita il folgorante attacco di quel primo libro – è vero”. (“Il sangue dei vinti” pagina IX). Infine c’è l’anomalia dell’autore. In tutta la campagna promozionale del libro, e anche nei primi anni successivi il padre del bestiario continua a ripetere: “La Resistenza era e rimane la mia patria morale”. Il libro fa divampare la polemica, e dopo la pausa di un libro sulla Jugoslavia – trova subito un seguito. Si tratta di “Sconosciuto 1945”. Siamo nel 2005, la casa editrice è sempre la Sperling & Kupfer, è fin dal primo capitolo di nuovo si incrociano gli ingredienti che hanno prodotto il primo successo. Il titolo del libro – spiega Marco Ferrario, ex amministratore delegato della casa editrice – fu cambiato all’ultimo momento, e fu un colpo di genio. Avevamo già fatto le prove delle copertine, Giampaolo arrivò da uno dei suoi viaggi con un targa anonima e disse: ‘Voglio che sul libro ci sia questa”. Era una targhetta di metallo, sporca, arrugginita, quasi illeggibile, l’epigrafe di un’epoca. I Grafici ci lavorarono per ore, alla fine il libro andò in stampa così, e fu un altro successo.
Molti degli storici progressisti non presero bene né il primo né il secondo libro. “Mancano le fonti”, scrissero (ma non era vero, perché erano sempre indicate). “La vena narrativa compromette l’attendibilità scientifica”, aggiunsero (e non era vero, perché come abbiamo visto, Pansa dichiarava con nettezza la separazione tra le due dimensioni). Dissero infine che attingeva a una storiografia di parte, squalificata e inattendibile. Ma con l’istinto del cronista, Pansa era già diventato una macchina da guerra: loro riportavano de relato da fonti ufficiali (e talvolta celebrative del dopoguerra) lui setacciava già i registri anagrafici. Dissero allora che Pansa era “diventato di destra”, e lui si arrabbiò sempre di più. Anche se a ben vedere era vero che Pansa (e lo dichiara esplicitamente in questo libro, dialogando con la solita bibliotecaria), stava cambiando: “Scrivere il sangue de vinti e i libri successivi mi ha molto cambiato. Ho smesso di essere manicheo, di dividere il mondo in due, di qua i buoni, di là i cattivi” (“I vinti non dimenticano”, pp.33). Ma era davvero solo questo? Quando nel 2006 avevo pubblicato “Cuori neri” (un libro in cui raccontavo gli anni piombo partendo dalle storie delle vittime “di destra”), Pansa, che tutti i colleghi conoscono per la sua proverbiale generosità, mi chiamò per farmi dei complimenti, e aggiunse: “Adesso sei un revisionista pure tu”. Nacque allora una lunga discussione, tra noi, che abbiamo completato a cavallo di due o tre anni, ai margini di diverse presentazioni. Io ero convinto che “revisionismo” non fosse una bella parola. Né tantomeno la consideravo il termine adatto a raccontare quello che pensavo di avere fatto. “Il revisionismo” sul dopoguerra aveva partorito come estrema filiazione il “negazionismo”, ed era sempre e comunque un estremo. Ovvero – secondo una definizione che mi costruii proprio nel dialogo con Giampaolo – “il ribaltamento di un luogo comune storiografico nel suo contrario”. Ma era davvero questo il senso del suo lavoro? Si poteva affermare che la Resitenza era ancora oggi una “patria morale”, e subito dopo ribaltare lo stereotipo dei “fascisti bestie feroci” in quello dei “partigiani assassini”?
Il terzo volume della serie “La grande bugia” (Sperling & Kupfer 2006) era uno squillo di tromba che lasciava questa domanda in sospeso. Era il polemista a prendere il sopravvento su tutto: “A me è successo di imbattermi in tre sorprese. La prima è di essere aggredito dalla mia parte culturale, quella antifascista. Non da tutti, ma da molti sì. La stima è scomparsa. E al suo posto è emersa l’ostilità”. Le nuove storie che continuano ad emergere dai lettori che gli scrivono si combinano con il duello contro i suoi detrattori (ad esempio lo storico Angelo D’Orsi) e l’autobiografia (con l’irresistibile aneddoto del direttore Italo Pietra che a Il Giorno chiedeva: “Chi di voi ha bruciato la mia casa in quel rastrellamento sul monte Penice?” (“La grande bugia”, pp.24). Aneddoto folgorante: voleva dire che parlava a dei redattori che nella guerra del ’45 avevano combattuto sui fronti opposti e che nell’Italia spensierata degli anni sessanta la linea di demarcazione dell’odio sembrava finalmente sepolta. Il libro conteneva passaggi irresistibili contro l’ex sindaco di Milano Aniasi, contro la codardìa verificata dall’autore rispetto ad alcuni dirigenti (Piero Fassino, Walter Veltroni, prodighi di solidarietà in privato, ma assai avari in pubblico) strali micidiali contro Giorgio Bocca, il rivale giornalistico di sempre, che si era autoproclamato difensore della Resistenza: “Bocca – racconta Pansa a una immaginaria Emma – non è stato solo un campione della carta stampata: è stato anche, e lo è ancora, un campionissimo delle contraddizioni”. E poi, con lo stiletto tra i denti: “Oggi è un antifascista d’acciaio. Ma prima di fare il partigiano è stato anche un fascista e un antisemita. Oggi è tra i più aspri nemici di Berlusconi, ma ha lavorato per le televisioni del Cavaliere, e con ottimi contratti. L’ho fatto per soldi’, ha spiegato in una intervista a Oreste Pivetta per l’Unità del 14 marzo” (“La Grande bugia, pp.66).
Questa citazione rivela molte cose insieme. Primo, l’arma più micidiale di Pansa, il suo archivio, usato con uguale capacità contundente sia nella contemporaneità che nelle storiografia. Secondo, il gioco di ribaltamento con l’eterno rivale: Bocca è un voltagabbana che difende la Resistenza, perché ha scheletri nell’armadio, io ne critico le magagne disinteressatamente.
Ma qui accadono due episodi di cui sono in qualche modo testimone oculare. Il quarto libro del ciclo “I gendarmi della memoria”, riproduce esattamente la formula del terzo, proprio come questo ultimo segue la falsariga del primo. E’ un libro “autofago” e autogenerante. Perché come in un gioco di specchi Pansa può raccontare (e sono pagine thrilling) dei Militant che a Reggio Emilia contestano la presentazione del suo libro precendente, che a sua volta contestava le critiche al libro precedente (“I gendarmi della memoria”, pp. 21). Il “ciclo dei vinti”, con i “Gendarmi” entra in un labirinto di specchi. E Pansa, sul cassero del suo vascello di carta, composto ormai da più di un milione di copie diventa come Achab, alla caccia di Moby Dick. La “patria morale” è sempre più sullo sfondo, sempre più rarefatta. Anzi, ad un tratto scompare. Il papà del Bestiario, infatti, distingue tra una “resistenza democratica” e una “anti-democratica”. Quella democratica (liberal azionista) era minoritaria, quella anti-democratica (ovvero il Pci) era maggioritaria. Quindi il senso di assoluto del grande giornalista diventa la trappola in cui rimangono incastrati anche lo storico e il pamphlettista. “I Tre inverni della paura” (Rizzoli, 2008) segna un altro passaggio. Anche se in una forma dichiaratamente e totalmente narrativa (che lo porta fuori dalla dimensione saggistica), qui la resistenza è diventata “cattiva”. Sono cattivi i fattori comunisti, ideologici e feroci, sono umanissimi i ragazzi che scelgono Salò. Le prime pagine di racconto sono scritte con una qualità narrativa avvicente, ma poi i personaggi diventano maschere. E’di nuovo l’autore del ciclo dei vinti, che ruba la mano al narratore per condurre la sua battaglia? “Il Revionista” (secondo libro Rizzoli, 2009) torna al saggio storico-autobiografico-pamphlettistico. Le storie sono tutte vere, tutte rigorosamente verificate, ma tutte a senso unico. Cosa succede se si raccontano tutte le vittime, nome per nome, di una sola parte? Cosa succede se si racconta della strage delle ricamatrici di Arcevia? Cercando di rincorrere tutti i fili e tutte le storie, Pansa abbandona dichiaratamente La Storia. Sublima il suo revisionismo orgogliosamente proclamato in un paradosso relativistico in cui ci sono solo le atrocità dei Vincitori. E arriva a paragonare i partigiani ai terroristi: “Domandiamoci cosa sarebbe accaduto se, nell’Italia degli ani settanta e ottanta il partito clandestino guidato da Curcio e Moretti avesse potuto contare su centinaia di uomini disposti a sparare e ad uccidere in tutte le regioni italiane”. Forse adesso sarebbe ora che Pansa fermasse il timone, schiodasse dall’albero maestro il doblone che ha inchiodato, mettesse per un attimo da parte il nonno fascista di Dario Franceschini e il fratello nero di Prodi e smettesse di inseguire la balena bianca della Resistenza.
Luca Telese
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