Embè? E allora? Che male ce sta? Allora provate a ricostruirla e a riguardarvela questa collezione di facce: le maschere rituali dell’Italia cialtrona, raccomandona, arrogante. Riguardatevi piano piano, alla moviola, magari su YouTube i tic, le espressioni, le smorfie terree degli amministratori, dei sindacalisti, dei politici che giustificano l’ingiustificabile con la sfrontatezza della presunzione di impunità, e con lo sprezzo stampato sul viso: “Sì, sì… È vero, hanno assunto mi fija… Embè? Aveva mandato er curicula….”.
Provate a entrare dentro il collo taurino di Adalberto Bertucci, “il signor Atac” che domenica sera, intervistato da Presa diretta, declinava il suo personale vangelo, la teorizzazione spudorata della chiamata diretta e della clientelizzazione nell’azienda che ha amministrato. Infilatevi nel rivolo di sudore che attraversa la faccia apparentemente pietrificata di Franco Panzironi, “il signor Ama” (purtroppo ancora in carica). Panzironi è più cauto, meno brutale, Nega, si nega, rinnega. È uno di quelli del noto filone che amministra a sua insaputa: “Non posso parlare perché c’è un’inchiesta in corso…”, e spalanca gli occhi, alza le sopracciglia, scuote il capo. Povera animella candida.
Fate un altro sforzo. Non l’avete mai vista, ma provate a immaginare la faccia del vigile anonimo che fino a ieri ci raccontava di essere andato nella caserma dei carabinieri del Quadraro “a trovare un amico”. Non conosciamo il suo nome. Ma conosciamo la faccia vagamente spudorata del comandante dei Vigili di Roma, Angelo Giuliani, che mentre i carabinieri sospendevano i loro indagati diceva: “Calmi, pazienza, bisogna vedere. Io ho parlato con il ragazzo e dico aspettiamo…”. Ma sì, aspettiamo. E’ indagato dai magistrati, embè? Ovvero è uno dei quattro che oggi sono sotto inchiesta per uno stupro in caserma. Ma lui era in visita, che sarà mai? Sono queste le facce dell’Italia che non conosce colpe e responsabilità.
I volti della nuova impunità istituzionale hanno i galloni di amministratori sulle spalle, bilanci stellari in mano, ma contengono bocche che parlano con accenti romaneschi, burini, sbrigativi: “Embè? ‘Ndo sta er problema?”. Il problema per loro non c’è mai. Che simpatia, per dire, quel Nicolas Romitelli, anche lui dal feudo Bertucciano di Guidonia, che quando parla della figlia assunta in azienda prima nega, poi ammette, infine dice candidamente: “Dicono sempre che i raccomandati rubbeno er posto ai bisognosi: ma perché, nun ce po’ essere anche un bisognoso de quà?”. De quà, ovvero dalla sua parte: le facce di bronzo hanno riferimenti di appartenenza spaziali, fisici, tribali.
Ora fate uno sforzo di fantasia per figurarvi la serenità del direttore dell’azienda per il diritto allo studio che in Abruzzo ha tolto borsa di studio e alloggio agli studenti scampati al crollo della casa dello studente. E’ interessante stdiare la faccia di Luca Valente, direttore imputato per il crollo, che colpisce i ragazzi che sono parte lesa hanno testimoniato nel processo: Embè, E allora? Che male ce sta? . Li ha cacciati per una sigaretta accesa in caserma e poi dice: “E allora? Ho applicato l’articolo 8 del regolamento”. Che c’è, non si puo? Lineare.
Oppure cercate (senza trovarlo) un lampo di vergogna nell’angolo buio dello sguardo di quei sindacalisti dei trasporti che quando gli si ricorda che nell’ente che avrebbero teoricamente dovuto controllare sgranano la pupilla a palla e dicono: “E allora? E che mia figlia non deve più lavorare?”. Ecco, la meravigliosa puntata allestita da Riccardo Iacona per Presa diretta (insieme ai suoi inchiestisti-panzer Vincenzo Guerrizio, Raffaella Pusceddu e Elena Straventinoli) non era una semplice inchiesta sugli orrori della parentopoli laziale. Era come il Cafonal di Dagospia, il ritratto di un’epoca. Una galleria di orrori in cui quando vedi la faccia capisci tutto. Luigi Sardone, segretario della Uil del Lazio ha un viso candido e baffuto: “Ma che vole tutta ‘sta gente che grida la scandalo?”. Esibisce i curricula che ha sul tavolo come un esorcismo. E Giancarlo Napoleoni? Anche lui sindacalista dei trasporti, ha piazzato figlia e figlio. Hanno mandato i curriculum, ma vedi ‘npo!. Ernelio Cipriani, altro grand commis all’amatriciana targato An (quello che aveva tirato i finocchi a Vladimir Luxuria) ha la figlia all’Atac e sbuffa dalle narici alle domande: “Ha fatto regolare domanda!”. E come no? “J’ho detto: ‘Hai fatto tutto come dovevi? E allora che te stai a preoccupa?”.
Questa è la faccia del’Italia dei feudi, l’Atac di Sambuci (9900 anime e 50 dipendenti in azienda) o di Guidonia, dove regna la famiglia Bertucci. Guardate la faccia di Attilio, inquartata sul tronco come se il collo fosse stato sepolto dentro all’opulenza: “Io nun so’ tenuto a sapere se una è moje, fidanzata, marito o fija. Le assunzioni so tutte regolari”. E Marco Bertucci? La sorella ha una consulenza? “No, deppiù. E’ assunta”. Lui è incravattato come si deve, c’ha il ciuffo fluente della terza generazione, e quel tipo di sorriso di cui ti prende per culo convinto di farti quasi un regalo: “Assunzioni? Se si fa parte di una squadra, ci devono essere risultati per tutti”.
Ma certo, no? E il sindacalista ugiellino Stefano Cantarini? “Mio figlio ha fatto regolare concorso. Se l’assumevo io mica lo mandavo alle cinque per strada”. I politici avrebbero dovuto amministrare. I sindacalisti vigilare. Invece hanno piazzato i famigli. E allora? embè? E’ una piccola galleria di orrori questa pinacoteca di sudori e sorrisi infingardi. In un paese civile, dopo un’inchiesta così sarebbero già spolpati dai media, dimissionati dai loro principali, e mandati a casa. Invece si godono l’impunità . Peccato che esistano loro. Meno male che Iacona c’è.
di Luca Telese
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