di LUCA TELESE
La partita delle primarie diventa ogni ora più complessa, e dietro la sua facciata di contrapposizione dura (apparentemente netta e incontrovertibile) tra due candidati antitetici, nasconde una serie di subordinate importanti che riguardano il futuro di tutta la coalizione.
Pierluigi Bersani e Matteo Renzi cantano entrambi vittoria (e non potrebbe essere altrimenti) mentre Nichi Vendola recrimina (e non potrebbe essere altrimenti).
Ma il dato politico uscito dalle urne di domenica è innegabile: la «sinistra del centrosinistra» (di cui Sel raccoglie una parte considerevole dei consensi) perde peso politico, anche se – per paradosso – può aumentare in queste ore il suo peso negoziale. I numeri, però vanno pesati bene per capirne il senso politico: solo questa estate la somma di Sel e Italia dei valori superava il 15% nei sondaggi e pesava quindi non meno del 30% della coalizione.
A questi dati, poi, vanno aggiunti molti militanti della Federazione della sinistra che, in modo esplicito e non, hanno votato anche loro (se fossero solo la metà, l’1,0% per cento peserebbero il 2%). Non è poco. Siccome Vendola ha capitalizzato meno della metà di questo 32%, vuol dire che molti elettori di Rifondazone e Pdci hanno votato Bersani fin dal primo turno per fare fronte contro il «renzismo».
La distruzione della «foto di Vasto» che aveva trionfato alle amministrative ha ridotto il suo margine di manovra e ha spostato il baricentro di tutta la coalizione a destra. Il governatore della Puglia, che non voleva correre, ha un credito con Bersani (il suo sacrificio è servito, soprattutto per raccogliere voti giovani, e sottrarli al sindaco di Firenze).
C’era poi una funzione politica: Bersani ha spinto Vendola a candidarsi anche per evitare che le primarie diventassero una consultazione interna del solo Pd. E in queste ore al leader di Bettola servirebbe come il pane un appello diretto ed esplicito in suo favore, che attenui il fenomeno potenziale del «Vendorenzolismo», (ovvero il passaggio di voti dal governatore della Puglia al sindaco di Firenze).
Non si tratta di una burla: se si analizza il voto seguendo il baricentro politologico sull’asse cartesiano destra-sinistra, Renzi è certamente più lontano da Sel di Bersani. Ma se si prende come asse la discriminante vecchio-nuovo, molti elettori del governatore, anche insospettabili, potrebbero meditare il sostegno al candidato di rottura con il gruppo dirigente storico. Dentro Sel c’è chi vorrebbe accordarsi con il leader del Pd schierandosi senza se e senza ma (Gennaro Migliore), e chi vorrebbe punirlo per le sue aperture a Renzi (Nicola Fratoianni).
Valutazioni non possibili per Laura Puppato e Bruno Tabacci, entrambi iscritti d’ufficio al partito anti-Renzi. Non è un caso, dunque, che con apparente non – chalanche il sindaco di Firenze, ieri mattina, entrando in municipio, facesse sapere con tono sdrammatizzante e quasi complice: «Io e Nichi ci siamo smessaggiati ieri notte. Ma sto dando per scontato che si allei con Bersani». Vendola è rimasto di poco sotto il 16% di Fausto Bertinotti nel 2005, ma (ballottaggio a parte) serve sia al segretario del Pd, sia al suo sfidante, alle elezioni, per evitare un rischio serio: l’emorra – gia a sinistra. Dopo questo risultato, infatti, si aprono varchi per il progetto di un lista arancione intorno a Luigi De Magistris (che non a caso, ieri, lasciava trasparire soddisfazione per il mancato successo del leader di Sel). Antonio Ingroia torna dal Guatemala (evidentemente non aveva ancora disfatto la valigia) per tastare il terreno all’assemblea di Alba. Ma Alba ha già votato di correre fuori dal centrosinistra. E Ingroia potrebbe essere la figura di riferimento che traghetta energie dalla sinistra di coalizione verso un’alleanza tutta da costruire, ma non impossibile, con Grillo (non vanno dimenticati i buoni rapporti del magistrato con il Pdci che produssero l’intervento – contestatissimo – al congresso del partito di Diliberto).
Renzi e Bersani duellano, anche duramente, sul nodo decisivo delle regole. Gli uomini del segretario, e il redivivo Luigi Berlinguer (con la sua commissione dei garanti), vogliono sbarrare la strada alle nuove iscrizioni. L’ultima pensata è l’obbligo, per chi non ha il certificato, di confluire nei capoluoghi di provincia. I renziani, con in testa Lino Paganelli, insorgono: «Vogliamo la registrazione online». Non la otterrano, ovviamente, ma ci provano. Anche questo sarà un passaggio decisivo: esattamente come Hillary e Obama, Renzi e Bersani si picchiano senza riguardi fino all’ultimo istante utile della partita, portando alle estreme conseguenze lo spirito gladiatorio delle primarie. Ma il giorno dopo il ballottaggio potrebbero accordarsi per tagliare fuori il vecchio centro: un ticket per correre insieme verso palazzo Chigi, o una divisione di campi di influenza tra governo e partito.
Fantascienza? Mica tanto: accadde persino tra i due nemici D’Alema e Veltroni, nel 1999. La verità sulle primarie è che i voti dei visitors «di destra», infiltrati e registrati, hanno pesato, già al primo turno. Quanti siano stati esattamente è difficile dirlo: ma 300- 400mila è una stima sensata. Non sono pochi: potrebbero aver spostato il 10%, e perlopiù a favore di Renzi. Nelle regioni rosse, a questo voto di disturbo, si è legato il voto di dissenso anti-apparato. Non è un caso, forse, che solo in Emilia Romagna (dove c’era stato il caso Guazzaloca) i bersaniani abbiano mantenuto (al contrario di Umbria, Marche e Toscana) la maggioranza dei consensi. Renzi ha due carte: sperare nel sorpasso impossibile. E se non ci riesce sedersi a capotavola, alleandosi con lui.
Rispondi