C’è una sentenza che queste elezioni europee ci hanno consegnato, e che (anche se a prima vista la relazione non è immediatamente visibile) la cronaca giudiziaria di queste ore conferma: l’Italia non è un Paese per tecnici. Ma forse sarebbe meglio dire: i tecnici – contrariamente a quello che la propaganda ci raccontava – non sono mai una buona cosa, e ancora meno lo sono stati per l’Italia.
Lo scandalo dell’inchiesta sull’ex ministro Corrado Clini ci insegna che nessun politico avrebbe potuto governare un ministero per venticinque anni, indifferentemente sia da ministro che da direttore generale, nessun politico avrebbe mai accumulato tanto potere, e così a lungo, e – soprattutto – nessun politico ha avuto la sfacciataggine di assegnare centoventi consulenze alla moglie.
Ci avevano raccontato che serviva una classe dirigente superiore, incorruttibile, piena di competenze. Ci avevano dipinto i nuovi ministri come dei marziani capaci di inaugurare una stagione di governo in nome del bene comune, senza cedere a nessuna umanissima tentazione. Ebbene, mentre Scelta Europea raccoglie percentuali da prefisso telefonico, con uno striminzito 0,7%, tutti gli uomini-simbolo della stagione montiana si sono eclissati, sono finiti in disarmo, o addirittura in disgrazia.
È scomparsa dall’orizzonte Elsa Fornero, che solo pochi mesi fa era raccontata come una salvatrice della patria, e che riempiva copertine di settimanali, prime pagine dei quotidiani e telegiornali; mentre continua ad annunciare nuovi partiti, senza che nessuno ne ricordi nemmeno il nome, Corrado Passera, l’uomo che aveva steso il piano per salvare l’Italia. Fu costretto a dimettersi, per l’inchiesta su una vacanza regalata, l’ex sottosegretario Carlo Malinconico. E non è uscito bene – anche se non esiste nessun addebito giudiziario – l’ex ministro Patroni Griffi, l’uomo dai due cognomi e dai due incarichi, che compró una casa del patrimonio pubblico (anche quella al Colosseo) a prezzo di favore, e con lo sconto, per poi rivenderla con un notevole profitto.
Ma soprattutto: si è defilato in un modo un po’ mesto il massimo protagonista, quel Mario Monti che solo due anni fa era indicato da tutti come il futuro presidente della Repubblica. E che ha toccato il fondo della propria breve carriera politica con due episodi memorabili: il primo è il colloquio con un incredulo Napolitano in cui Monti spiegava che o la poltrona da presidente del Senato sarebbe andata a lui, oppure non l’avrebbe voluta per nessun esponente del suo partito (una manifestazione di disinteresse che ha fatto deflagrare, prima ancora che lo certificassero le urne, Scelta Civica). Il secondo episodio incredibile (e che con il senno del poi, forse è anche una vendetta) è quell’intervista ad Alan Freedman in cui il senatore a vita rivelava – incalzato sul terreno fecondo della vanità – di dare del tu a Napolitano e di essere stato da lui contattato mesi prima dell’incarico per un sondaggio sulla sua disponibilità a diventare premier. I cattivi tecnici hanno dimostrato, se era possibile, di essere peggio dei cattivi politici.
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