Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Legalità: non manca il governo, ma l’opposizione

Si é detto per tanti anni che il problema era il governo, la sua forza troppo spesso soltanto simbolica, ovvero l’impossibilità presunta di scegliere, di decidere o di governare le città o il paese. Mentre invece, a maggior ragione dopo lo scandalo di Venezia, il problema di oggi — nel pieno di una drammatica emergenza legalità — sembra esattamente e clamorosamente il contrario: il problema é che manca la funzione del controllo, del contropotere, dell’opposizione riformista che anche se pienamente inserita nei meccanismi del sistema, ma aliena alla trappola della consociazione, fa da cane da guardia delle istituzioni rappresentative. Fateci caso: da Reggio Calabria all’Expo, a Venezia, manca un anticorpo politico. Le inchieste non seguono come per tanti anni è accaduto le denunce della società civile, non intervengono perché c’è stata la denuncia della politica, ci sono solo perché sono i magistrati ad operare. Negli anni settanta e negli anni ottanta, persino nei film del filone civile da Le mani sulla città a I cento passi, così come nella realtà, c’è sempre stato spazio per il ruolo vitale dell’antagonista: magari un piccolo consigliere comunale comunista, o missino, o magari di Democrazia Proletaria, come era nel caso di Peppino Impastato, che svolgeva la funzione provvidenziale di disturbatore nella Cinisi di “Tano seduto” Badalamenti. Oggi invece, con i Grillini che spesso si confinano da soli in un ruolo visibilissimo, ma troppo spesso soltanto declamatorio, la politica arriva solo dopo le inchieste, il più delle volte per constatare il proprio decesso. Negli anni novanta il film simbolo e la figura rappresentativa della stagione di Falcone e Borsellino era La scorta: adesso scopriamo che la scorta di un ex ministro può essere usata per agevolare lo shopping della moglie di un latitante. Non esiste più la mitografia della Scorta perché non ci sono più i buoni da proteggere.

Quello che è accaduto a Venezia, prima ancora di arrivare o meno ad una verità giudiziaria, ci consegna un’innegabile e drammatica sentenza politica: nel tempo delle larghe intese il sistema diventa più vulnerabile. Il bipartitismo all’italiana ti dice che, se ci sono solo due forze di governo, magari una di centrodestra e una di centrosinistra, il potere reale — quello finanziario o quello criminogeno — tende a finanziare entrambe, seguendo non la logica dell’appartenenza o della simpatia, ma quella dello scommettitore abituale che fa una doppia puntata giocando sui tassi e sulla differenza delle quotazioni per essere certi di vincere chiunque sia l’avversario che prevale.

Non guardate quello che c’è sulla scena in modo visibile, e che quindi vi aspettate di vedere. Guardate quello che non si vede perché non c’è. Non c’è più l’opposizione: tutti sono al governo perché se non ci sono prima o poi ci arriveranno poi, e tutti sono accessibili e corrompibili perché in misura diversa, ma sostanzialmente omogenea esprimono la stessa compatibilità al sistema italianissimo della corruzione ambientale. Qui il problema non è la difficoltà di fare, perché leggendo le carte si scopre che a Venezia il consorzio riscriveva addirittura le leggi, e gli atti di vigilanza di chi avrebbe dovuto controllare la su attività. Qui il problema è che non conveniva nemmeno fare, ovvero finire le opere perché altrimenti sarebbe finita la festa oscena delle tangenti e delle prebende.


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