La (micro) scissione di Sel, con quattro deputati che lasciano il partito con la facilità con cui si lascia un cappello, senza dibattito e senza passione, in modo garbato ma quasi asettico, ha qualcosa di inquietante. Non solo per Sel e per i suoi iscritti, che al 99,99 per cento non vogliono avere nulla a che fare con il Pd di Matteo Renzi, ma con la politica italiana, con il paese e con il carattere della sua democrazia.
Il fattore inquinante, patogeno di questa malinconica e dimessa transumanza, che per una questione di stile, segno distintivo di Nichi Vendola (ma anche sua debolezza), non viene stigmatizzata con il vecchio armamentario delle parole grosse, dell’accusa di tradimento e dell’ingiuria, è in questo sentimento scomposto e apparentemente ingenuo, quello di correre in soccorso del vincitore. Intendiamoci, questa, in altri tempi, per Vendola sarebbe una medaglia, rispetto ai precedenti del passato, ai vecchi genomi del dogmatismo post staliniano, ma nella situazione di rischio attuale, forse sarebbe il caso di abbandonare lo stile per lanciare anche un grido di allarme che non riguarda un partito ma un sistema democratico.
Tutte le altre scissioni della sinistra, da quella dei Comunisti unitari (1995) a quella del Pdci (1998) — infatti — erano state organizzate con l’ambizione e il risultato di essere politicamente determinanti: il pianto di Marida Bolognesi per votare la fiducia al governo Dini e di «non far vincere Berlusconi» (Baciare il rospo, titolava il manifesto), la rottura tra Armando Cossutta e Oliviero Diliberto da un lato, e Fausto Bertinotti e Franco Giordano dall’altro, con la conseguenza pratica di garantire la sopravvivenza del governo Prodi. E infatti, con i voti di chi usciva e votava la fiducia, cambiava la storia politica del paese. In questo caso, invece, i voti sono del tutto ininfluenti, il che non è una attenuante ma una aggravante.
Questa è la prima (micro) scissione del nuovo tempo, la prima dell’era unanimistica, una scissione che si compie con la consapevolezza di essere irrilevanti, sapendo di essere gli ultimi arrivati, di aggiungersi al truppone di uno scomposto partito unico “della nazione” che va da Carlo Giovanardi a Gennaro Migliore, e domani a chissà chi altro. Qui non c’è nessun minimo comune denominatore, non c’è più nessun legame tra chi si intruppa nella galassia renziana, nemmeno il labile pretesto di essere contro qualcosa. In questo caso l’unico filo di identità comune è quello di volersi annullare nella leadership di chi vince.
Questo processo fa male, non a Sel, ma a tutto il paese, come ho provato a scrivere altre volte, ed è figlia di un fenomeno malsano, la scomparsa dell’idea, della legittimità e della necessità dell’opposizione.
Per questo, quelli che restano al loro posto hanno un ruolo e un merito maggiore a quello del passato, e non solo perché se entrassero in una qualunque sezione di Sel i (micro) scissionisti verrebbero sobriamente umiliati, ma anche perché nel momento in cui persino Grillo sembra ipnotizzato dagli occhioni azzurri di Maria Elena Boschi, nel paese in cui Scelta Civica si è spappolata e Mario Monti si aggira come uno spettro scespiriano, e nel paese in cui Angelino Alfano e Fabrizio Cicchitto sembrano naturalmente incastonati nella maggioranza di governo (come se fosse naturale che la destra governi in modo perenne con il centrosinistra) chiunque resti fuori dal mucchio svolge un’indispensabile funzione di controllo.
L’Spd degli anni venti si spaccò sulla questione cruciale dei crediti di guerra, il Pci del 1991 su quella dirimente della guerra in Iraq, Gennaro Migliore e Titti De Salvo si aggregano al partito unico del governo per aggiungere il quattrocentesimo voto inutile (ovvero non determinante) al decreto sugli ottanta euro. Il trasformismo italiano ha una storia antica che affonda le sue radici nell’Italia liberale, nasce con la meravigliosa frase di Agostino De Pretis secondo cui «se qualcuno vuole cambiare idea e avvicinarsi a noi, perché dovrei impedirlo?».
Non si può certo chiedere a Matteo Renzi di firmare i transumanti in viaggio verso il governo, che forse in questo momento gli fanno più danno che aiuto. Ma forse si può ricordare quel vecchio adagio di Francesco Saverio Nitti, molto caro a Indro Montanelli, che oggi è un’ottima bussola per capire: «Se cambi e nel cambio ci rimetti io ti stimo. Se cambi, e nel cambio ci guadagni io comincio a sospettare». Il neo trasformismo dei profughi di Sel, insomma, è utile solo a chi lo pratica, a piccole pattuglie di eletti. Quelli che in queste ore dentro il partito di Vendola restano fedeli al voto di chi li ha portati in Parlamento, e restano nello spazio scomodo, necessario e utile dell’opposizione che controlla il governo senza demagogia. Di certo non ci guadagnano nulla.
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