Forse, presi dall’urgenza della cronaca e dall’andamento, terribile ma purtroppo seducente, del romanzo giallo che è nato intorno a questo omicidio, non ci siamo ancora del tutto resi conto delle tante implicazioni del delitto di Yara Gambirasio, della vera e propria rivoluzione che ha prodotto e che sta producendo nelle metodologie di indagine, nel nostro immaginario e – persino – nei principi del diritto.
Si potrebbe dire che questa inchiesta celebra il trionfo della “crimino-genetica”, ovvero di quella nuova disciplina investigativa che parte dalla centralità del Dna per subordinare tutto il resto alla considerazione prioritaria e quasi esclusiva di questo elemento di prova. Qualcuno sosterrà che è giusto, qualcuno che è sbagliato, in ogni caso è un terremoto. Solo dieci anni fa il Dna era considerato in sede processuale come un semplice indizio, con il caso di Yara diventa il cardine del sistema inquisitivo.
In Italia – si potrebbe dire – sono bastati tre grandi delitti e il clamore mediatico che hanno prodotto, per riscrivere il senso comune e le priorità della giurisprudenza. Tuttavia, mentre fortifica il potere della “crimino-genetica” diventando un caso di scuola, l’omicidio di Yara sta anche prefigurando, per la prima volta, anche gli enormi problemi di diritto che si aprono dopo questa inchiesta. Il Dna – un tempo considerato semplice “indizio” – era via via diventato una prova confermativa capace di convergere con altri elementi in un teorema accusatorio costruito in modo autonomo. Nel caso di Massimo Giuseppe Bossetti, invece, per la prima volta è percepibile al grande pubblico che tutta l’indagine prende corpo intorno al profilo genetico di un assassino la cui identità è stata prima isolata in laboratorio (l’ormai celeberrimo “ignoto uno”) e solo successivamente confermato nell’indagine con l’individuazione del suo possessore.
Così questo modo di procedere pone alcuni problemi enormi, che – anche se paradossalmente non valessero per Bossetti – si porranno per tutti gli altri in futuro.
1) Se il dna può diventare prova quasi esclusiva di un delitto, è possibile che il prelievo avvenga nella totale inconsapevolezza dell’indagato e dei suoi difensori?
2) Quali garanzie devono essere stabilite, per gli esami, e quali protocolli di sicurezza, se è vero che – in questa e in altre indagini – non sono mancati casi di confusione dei campioni?
3) Cosa succede se un esame realizzato in fase di inchiesta non è ripetibile in fase processuale?
4) Se si va verso una banca del Dna accessibile agli inquirenti, chi la gestisce e con quali garanzie per i cittadini? Il dna non è come una impronta digitale, non contiene solo un codice identificativo – infatti – ma l’intera identità dell’individuo, le sue caratteristiche fisiche, individuali, peculiari, le sue radici genealogiche: è – insomma – un bene prezioso che attiene ai dato sensibili e alla privacy anche e soprattutto nel caso di un inquisito.
5) Il valore probatorio del Dna, sempre più importante, non può diventare esclusivo e non può essere svincolato dagli altri elementi a partire dal movente.
Cosa accadrebbe se un assassino portasse deliberatamente sulla scena del delitto elementi organici appartenenti a un altro individuo?
6) Per paradosso (anche se non in questo caso) il Dna – anche nella certezza della sua identità – può diventare un elemento facilmente manipolabile: cosa accadrebbe, infatti, se un assassino per schermare la propria identità, portasse deliberatamente sulla scena del delitto elementi organici appartenenti a un altro individuo? Quanto ci vorrà perché un omicida raccolga una goccia di sangue altrui per schermare se stesso?
Tutti questi interrogativi, per ora, restano in ombra rispetto al fascino dell’inchiesta, al dubbio sul presunto colpevole, rispetto alla capacità di sedare dubbi che la crimino-genetica esercita sull’opinione pubblica. Eppure bisognerebbe avere chiaro che resterebbero in piedi anche se Massimo Bossetti dovesse risultare colpevole.
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