Nel 1950, quando il Brasile venne eliminato dall’Uruguay, la disperazione collettiva attraversò 200 milioni di anime e nelle strade ci furono persino dei suicidi. Era un altro tempo, un altro Brasile: un Paese arretrato, stritolato dalla dittatura di Getullio Vargas, un paese che vedeva nel calcio l’unica ragione di vita, l’unico possibile riscatto. Adesso le lacrime ci sono, e fluenti, adesso ci restano negli occhi il volto del vecchio coi baffi bianchi e il sombrero abbarbicato a una coppa Fifa di cartone, il ragazzino che singhiozza in un bicchiere di cartone della Coca-Cola, quelle ragazze bellissime e attonite, come delle luci spente, il pianto dirompente di David Luis che pare un bambino sottratto alla madre, pare un orfano di guerra, un vinto senza rimedio né speranza.
Eppure, malgrado queste lacrime, anche questa sconfitta potrebbe essere un punto di svolta, un passaggio di fase non del tutto negativo. Scriveva Osvaldo Soriano quando parlava dei suoi amati carioca, quando dava voce a quei campioni vincenti degli anni ’60, ’70 e ’80: «Se avesse visto prima il dolore, questo popolo non so se sarebbe stato capace di vincere». Quel Brasile vincente sul prato verde — infatti — era erede diretto della palla di stracci di Pelé e della poliomielite di Garrincha, oppure figlio del volto prematuramente adulto di Sòcrates e della sua Democrazia Corinthiana, del movimento che aveva annunciato il ritorno alla democrazia. Stupisce oggi pensare che i campioni del 1982, che avevano messo in scena uno dei più bei spettacoli della storia del calcio, fossero considerati sconfitti per colpa di Paolo Rossi, Marco Tardelli e Bruno Conti. Perdenti e reduci, quando annoveravano tra le loro fila la magia di gente come Toninho Cerezo e di Zico. Era il Brasile che si affacciava timidamente alle porte della storia, era un Brasile Eta Beta, con il corpo gracile e la testa grande, e questa enorme testa era per l’appunto la seleçao, la maglia giallo oro, il simbolo di un riscatto possibile.
Ecco perché oggi forse la spiegazione del dramma del Brasile non è la lacerazione di una ferita irrimediabile ma il segno di una speranza. Ecco perché oggi la sconfitta sul campo da calcio non è un’agonia ma una crisi di crescita, ecco perché se adesso in Brasile perde è perché non ha più la catastrofe alle spalle: gli undici sconfitti di ieri, strano che nessuno ci abbia pensato, sono i primi figli del benessere dell’età di Lula, sono la generazione che rappresenta per quel paese ciò che per noi furono i baby boomers. Se non sei più figlio della rabbia devi imparare a crescere con un’altra testa. Se non sei più uno degli ultimi, devi capire che sei diventato una superpotenza: questo è il Brasile che siede fra i grandi, che ha un mercato dell’auto dove la Fiat vende più che in Italia, dove il Real è una moneta forte, dove si redistribuiscono benessere e ricchezza e il lavoro si trova. Non è un caso che delle grandi contestazioni al mundial, dopo il fischio d’inizio non sia rimasta traccia. Certo, le contraddizioni restano: ma sono problemi per gli adulti che verranno nel nuovo tempo, e non più per i bambini che giocavano nelle favelas in bianco e nero del tempo passato.
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