Ma sì, alziamolo questo benedetto quorum richiesto per poter celebrare un referendum, come propone il governo. Alziamolo, e non soltanto da 500mila a 800mila firme, come sembra che un compromesso in commissione potrebbe arrivare prescrivere, ma di più, portiamolo a un milione come nell’idea originaria — perché no? — anche a 2 milioni di firme, così a nessuno verrà più in mente l’idea malsana di celebrarne uno, nessuno si potrà azzardare a consultare i cittadini sulle grandi questioni etiche, politiche e civili.
E, se possibile, abbassiamo anche il tempo della raccolta delle firme, così siamo sicuri che sarà anche tecnicamente arduo pensare di riuscire a farcela. C’è un combinato disposto, un disegno di fondo che rende preoccupante questa convergenza di molteplici sbarramenti tra legge elettorale e riscrittura delle norme per poter proporre dei quesiti, un brutto Monopoli antidemocratico. Sia chiaro: in questo paese i referendum hanno rappresentato momenti di sfavillante democrazia diretta, e in alcuni casi anche di inflazione, ed eccesso: non esistono strumenti perfetti. Eppure tutti i passaggi decisivi nella storia di questo paese, dal divorzio all’aborto, al nucleare, alla caccia alla pesca, alla legge elettorale, ai beni pubblici sono passati attraverso una consultazione popolare. In Svizzera esiste anche il referendum propositivo, e il ricorso alle urne per abrogare o promuovere, è quasi una prassi di governo, senza che nessuno gridi allo scandalo o denunci il rischio del caos.
In Italia il referendum ha avuto un ruolo ancora più importante nei passaggi di epoca perché è stato spesso l’unico strumento di possibile legittima difesa contro lo strapotere del Palazzo, l’arma finale per liberarsi dal peso degli accordicchi di partito e — in ogni caso — un importantissimo deterrente che aveva la funzione di salvifica minaccia, anche quando non si arrivava alla fase dello svolgimento. Adesso — mentre si sta per predisporre un nuovo sacrosanto referendum della Lega contro l’orribile legge Fornero sulle pensioni — queste trecentomila firme richieste in più per arrivare alla consultazione potrebbero imbavagliare i cittadini.
Anche perché: cancellato il finanziamento pubblico, le spese per i cancellieri (necessari per convalidare le firme) diventano sempre più difficili da sostenere. Molti non sanno che gli ultimi importantissimi referendum, proprio quelli sui beni pubblici, furono possibili solo perché l’Italia dei valori coprì buona parte delle spese dei comitati con circa un milione di euro. Servono sempre più firme, infatti, della soglia ufficiale, per non correre il rischio dell’invalidamento. Ma adesso, anche quel partito non esiste più e i partiti, anche quelli pieni di gente che ruba, hanno sempre meno risorse.
Così il quadro che si delinea è questo: una Camera che diventa la chiave di volta di tutto, da cui può restare fuori persino un partito di tre milioni di voti, in virtù di uno sbarramento al 12 per cento (che non esiste nemmeno in Bielorussia) e un premio di governabilità al 37 per cento che garantisce il controllo delle Camere a una potenziale minoranza.
Ci sarà poi un Senato di variamente nominati che fa da cassa di risonanza, composto da semi-dilettanti mandati a pigiare i bottoni di una Camera svuotata di ruolo (ma non cancellata, pur di mantenere una formale parvenza di garanzia).
E poi, ovviamente, un presidente della Repubblica eletto da quegli stessi nominati, i pupazzi dei partiti che avranno in mano tutto e negheranno ad ogni nuova formazione la parità competitiva, le risorse per poter fare politica e (adesso) anche gli strumenti per poter emendare le leggi fatte dal Parlamento-caserma, quando sono platealmente impopolari. È un gioco dell’Oca molto sofisticato, questo, in cui ogni casella aggiunge un nuovo vincolo. Mi raccomando: non disturbate i manovratori.
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