Sta diventando così radicale, e violenta, la polemica in rete sulla nuova edizione di Cuori Neri, che sento il bisogno di dire qualcosa di più (poi posso anche tacere). La prima: ho già raccontato di come fin da quando ho visto quel bozzetto non fossi convinto di quella proposta di copertina della casa editrice, che metteva in primo piano la foto segnaletica di Massimo Carminati. Ho spiegato i miei dubbi, le mie difficoltà, e il problema su a chi spettasse il diritto di scelta finale. Ma fra tante critiche dure, alla fine c’è un punto di verità, soprattutto nella posizione di coloro che mi dicono: ma tu alla fine quella scelta l’hai subita, l’hai condivisa, a noi non ce ne frega nulla del vostro dibattito interno, del perché o del per come. Quella foto alla fine è sulla copertina del libro che porta il tuo nome, quindi di cosa abbia prodotto quella scelta non ci importa, conta il risultato finale.
E’ vero: e lo è a tal punto che mi sono associato alla richiesta di chi – come la rivista Barbadillo – ha detto da subito: ripristinate la copertina originale. Di chi dice: prendi atto tu di un errore oggettivo che la relazione di tanti lettori rende evidente in modo plateale. Mi prendo la mia parte di responsabilità che su questo punto c’è, e che non si può dividere con nessun altro. Ho spiegato che quando un libro finisce per appartenere ai suoi lettori almeno quanto al suo autore o al suo editore, questa protesta è una ricchezza. E’ un caso raro, ma felice. Mi prendo la mia parte di responsabilità di più non posso fare o dire. Non posso prendermela con nessun altro se non con me.
Detto questo, la discussione che si sta sviluppando contiene un punto di paradosso, che per molti deriva dal fatto di non aver letto la mia prefazione, ma anche da una sorta di teorema che quella lettura metterebbe ancora più in crisi. Il teorema è: Carminati con la storia degli anni di piombo non c’entra nulla, Carminati è un delinquente abituale che con le vicende che hai raccontato in Cuori neri non ha nulla a che fare, Carminati soltanto nominato in quel libro che parla di vittime è un accostamento sacrilego. Di questo punto del dibattito, ovviamente, a costo di subire le reazioni più feroci, devo dire che non posso condividere nulla. Io nella prefazione che ho pubblicato in numeri romani, in apertura del libro, come un saggio aggiunto in cui riflettere su quello che era accaduto nel 2006 (e senza modificare una virgola del testo originale) parlo di tante cose che mi sembravano importanti nel dibattito di un decennio. Ad esempio di come il rapporto con gli anni di piombo oggi sia ancora più attuale e dirompente di allora. Questa polemica, semmai fosse stato necessario, né è una ulteriore prova: sono finiti i partiti storici, soprattutto quelli destra, sono scomparsi molti testimoni importanti, anche fra quelli che avevo intervistato, sono saltati i “corpi intermedi”, che mediavano il rapporto con la storia e con il passato: non ce ne siamo quasi accorti, ma è venuto meno il filtro della politica, e questo al contrario di quello che pensano molti non è una bene.
La memoria degli anni di piombo, anche per questo motivo, spesso diventa pura emotività, energia e rabbia, spesso prive di qualsiasi filtro intellettuale sia a destra che a sinistra. In questa prefazione citavo esempi diversissimi per raccontare questo cambiamento, nello spazio e nel tempo: il terrorismo è stato un codice, e questa lingua globale ha trovato una sua culla in Italia. Non solo, ma anche perché ho scritto queste storie, quando leggo e vedo i video dell’Isis, io leggo dentro lo spettacolo della violenza un format, e questo format i primi che lo hanno messo a punto sono state le Brigate Rosse. Non solo, ma anche perché ho scritto queste storie, quando leggo sui giornali la notizia che ancora si fanno rilievi scientifici a via Fani, perizie tridimensionali per provare a cercare tracce e prove a distanza di mezzo secolo, mi viene da sorridere, ma – siccome ho scritto questo libro – penso che non sia solo colore: mi rendo conto che l’ossessione criminologica che si associa alla rimozione storica è una sorta di valvola di sfogo di un trauma collettivo irrisolto. L’idea che si possa trasformare il delitto che più ha segnato la storia della Repubblica in un “cold case”, razionalizzabile, e risolvibile come una puntata di Csi mi sembrava follia pura. Seguendo questo filo di riflessione diacronico, arrivavo a Carminati, e all’impressione che leggere gli incartamenti di quell’inchiesta ha suscitato in molti di quelli che hanno studiato gli anni di piombo. Qui i delitti e i reati del processo non c’entrano nulla: l’inchiesta di Mafia capitale ci rivelava un mondo.
Ieri ho passato una giornata a discutere di tutto questo con persone diverse che mi hanno cercato o che ho cercato io. Tra questi ne cito alcuni: la mattina, ero ancora sotto choc, con Adriano Scianca, che mi ha intervistato. Poi con due giornalisti e come Ugo Tassinari e con Nicola Rao, studiosi e memorie viventi della storiografia più recente, poi con un giornalista come Michele De Feudis, infine con un altro giornalista sardo, Fabio Meloni, che era stato fra i presentatori del libro, e che aveva raccontato la sua indignazione sul web. Parto subito dall’obiezione Meloni, che è la più interessante, e riassumo con l’ascia (anche Michele dice cose simili, ma con più sfumature e problematicità). Meloni dice: a me quella copertina fa schifo. Ma il problema è anche che tu abbia scritto anche una prefazione citando Carminati. Non so se Carminati sia mai stato dei Nar – sostiene Fabio – ci sono molte voci controverse su questo, sicuramente ne è uscito per intraprendere un percorso criminale. Quindi, a prescindere dal suo passato, oggi Carminati è quello. Se tu accosti Carminati ai Cuori neri, di fatto stai contaminando quella storia politica con una storia criminale.
Questa discussione mi ha fatto molto pensare. E’ una tesi chiara, netta, ma io non la condivido affatto. Credo al contrario che la forza di Cuori neri, quello che ha dato potenza e credibilità al libro sia stato proprio una diversa scelta di fondo, quella di non omettere nulla: non devo fare l’album dei santi estromettendo con il bisturi i cattivi, o gli spettri, perché questo avrebbe prodotto agiografia, o falsificazione. Era vero esattamente l’opposto: per poter restituire verità alle vittime di quella stagione, bisognava raccontarla tutta. E’ per questo che Carminati non è stato “aggiunto”: il suo nome era già nell’indice dei nomi, come quello di Alibrandi, di Anselmi, di tanti che partendo da quella storia, aveva intrapreso i percorsi più disparati, per rispetto alla storia, non per una provocazione eretica. Mi sembra, insomma, che la foto di Carminati, apra a destra un problema simile a quello che si è posto a sinistra dopo il famoso articolo di Rossana Rossanda, quando l’editorialista inventò l’immagine dell’”album di famiglia”, per dire che dentro una storia comune della sinistra c’erano anche le Brigate Rosse. Questo non voleva assolutamente dire – per fare un esempio – che un militante del Pci dovesse avere una qualche corresponsabilità con le Brigate rosse: non c’era “contaminazione”. Ma piuttosto la necessità di testimoniare che la lotteria delle responsabilità politiche e individuali, partendo dal destino di una matrice comune, aveva prodotto le scelte più disparate e opposte. Per questo dentro Cuori neri era necessario raccontare – e così avevo fatto – anche il massacro dell’idroscalo, anche lo stupro del Circeo, anche le scelte più violente. Questo non infanga nessuno: questo aiuta a capire, a restituire verità. Da anni ragiono sul fatto che indagare questa “Zona grigia” sia l’unico modo per spiegare quella tragedia collettiva.
E qui arriviamo ad oggi: leggendo gli atti di Mafia Capitale chiunque studiasse o avesse curiosità per quegli anni non poteva non rimanere stupito per quanto il mondo e la storia di Cuori neri fossero continuamente evocati da Carminati come riferimento autobiografico ed ideale. Era per lui e per chi aveva intorno, ancora oggi, un elemento di identità. Siccome non ho nessuna simpatia, e nemmeno nessuna paura di questo paradosso, non ho bisogno di mostrificare Carminati, di esorcizzarlo come un demone. A molti fa rabbia, ma “Il nero” è parte di quel tempo, ci è completamente immerso, ha traversato il suo lato oscuro: il che non cambia nulla degli altri, e il che non proietta nessuna ombra sulle vittime. E’ uno dei possibili esisti di quella storia, come per la storia della sinistra e dell’estremismo armato rosso lo sono stati in modo diverso Patrizio Peci, Renato Curcio, o i ragazzi della Brigata Tanas. Parliamo di loro, per capire: dentro Potere Operaio, e il mondo che c’era intorno, c’erano molti che prima quei ragazzi dopo il rogo di Primavalle prima li avevano difesi, e poi li avevano espunti, dicendo: ma alla fine non erano dei militanti, solo dei delinquenti. Quando abbiamo visto il Lollo di oggi, collegato dal Brasile a Porta a Porta, con la sua boria e la sua impunità ci ha fatto schifo. Ma Achille Lollo non è un ufo: viene da una storia, e ha seguito un percorsi lineare, dentro la violenza ideologica di quel tempo, che lo ha portato dalla militanza extraparlamentare al delitto Mattei.
Tassinari e Rao, hanno una idea ancora più forte di me, su questo, e la riassumo così. Ma non ti rendi conto che in qualche modo, queste reazioni sono figlie di una operazione di separazione che hai fatto tu stesso proprio con Cuori neri? Tu hai raccontato le vittime, le hai sottratte all’oblio, ma lei hai anche separate dal loro tempo, dal loro contesto. La mia risposta è anche nella polemica di queste ore, nella montagna di insulti che mi prendo: io non ho mai occultato la zona grigia, non ho mai ceduto all’agiografia, non ho mai pensato che angelicare fosse una risposta. Le storie dei Cuori neri contenevano quasi miracolosamente, dentro il loro percorso, tutto il repertorio delle identità possibili: tempi, età, luoghi diversi. Ed erano storie bellissime, piene di sfumature, di problemi, di ricchezza. Rispetto a coloro che mi dicevano: ma allora dovevi raccontare tutti i “caduti” di destra, ho sempre risposto che questo era un altro libro, che altri hanno scritto (penso, ad esempio, a “Guerrieri” di Tassinari). Quello che distingueva la storia dei Cuori neri da quella degli altri è che tutti erano vittime della violenza politica. Per questo non temo il cosiddetto rischio “contaminazione”. Per questo non credo che si debba avere paura degli spettri, di tutte le storie degli anni di piombo, delle loro sfaccettature. Non penso che si debba avere paura di quella zona grigia dentro cui c’è stato tutto il meglio, e il peggio, e in cui nulla contamina, ma tutto aiuta a capire. Le vite dei santi risolvono tutti i problemi, sono lucide levigate e solari: ma hanno a che fare con la religione, non con la storia.
Luca
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