Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Anche un boss ha diritto al funerale che preferisce

Casamonica Capitale, dunque. Da quattro giorni si commenta furibondamente questo funerale, ma si fatica ad ammettere le verità più scomode, probabilmente più importanti, e di certo più difficili da discutere, ammesso che davvero si voglia affrontare in modo serio il dibattito sull' inumazione-spettacolo più kitch che l' Italia ricordi. Andrebbe fatto, invece, se si vuole dare risposte al trauma di un paese che si ritrova sulle prime pagine di tutto il mondo raccontato come un luogo da burla o come una tortuga della criminalità organizzata.

La prima evidenza è questa: piaccia o meno, ma Vittorio Casamonica ha diritto al funerale che più gli aggrada. Non era un detenuto, non aveva condanne per associazione mafiosa, era – dal punto di vista formale – un uomo come gli altri: lo stato di diritto persegue le responsabilità individuali, non quelle collettive, applica le pene comminate dai tribunali, non le grida e le invettive raccolte dalla stampa. Uno Stato che bracca i criminali quando agiscono nella società, non ha bisogno di inseguirli nel sacello con un paletto di frassino.

La seconda verità è questa: siamo una società civile perché le disposizioni testamentarie si applicano a tutti, onesti disonesti, pregiudicati e incensurati, e le ultime volontà comprendono anche le esequie. Siamo il paese di Ugo Foscolo e dei Sepolcri, delle catacombe, dei riti funebri, delle necropoli: persino i boss possono scegliersi il feretro e il rito che preferiscono. Se Casamonica vuole che la sua bara sfili in corteo con la colonna sonora del Padrino, il suo carro mortuario può essere accompagnato dalla struggente cantata di Ennio Morricone.

Se gli fosse piaciuto Rocky avrebbe avuto diritto agli squilli di tromba di Bill Conti. Credo che alla fama del boss, molto più dei cento fervorini, faccia più male la corrosiva perla di humour nero distillata dai perfidi satirici di Spinoza: «A me quel funerale è piaciuto. Di Casamonica dovrebbero morirne più spesso». Qualcuno chiede: come la mettiamo con gli striscioni dei nipoti Nunù, Loredana Marco e Jaklin, quelli in cui si certifica che "Zio Vittorio" dopo aver conquistato Roma «conquisterà il paradiso»? Ridicoli, quasi puerili, al pari del fotomontaggio con il patriarca che aleggia sul cupolone come un pontefice. Ma aver esposto quei drappi è un problema della Chiesa di Don Bosco e del suo parroco (mi auguro che con un colpo di mannaia Papa Francesco faccia cadere la sua testa), non dei romani. Il sindaco Marino era in vacanza? Ne ha tutto il diritto: ad agosto può telefonare anche dalle bermuda, a patto che sappia, e che dia disposizioni utili.

Vedo che molti oggi agitano il piffero e la trombetta, intonano alti lai, si esibiscono in cori indignati.

Ma una democrazia forte e solida non deve temere nulla: già nella prima Italia post-Resistenziale si celebravano fastosi funerali fascisti, con saluti romani canti e labari, a nessuno è mai venuto in mente di proibirli (e ci sarebbe mancato altro). Abbiamo concesso esequie pubbliche persino ai brigatisti, vergognose adunate di reduci ingrigiti dove si sono ascoltate invettive contro lo Stato e ridicole cantate dell' Internazionale (ad esempio in onore di Prospero Gallinari, uno di quelli che aveva tenuto sotto sequestro Aldo Moro). Anche a Montreal hanno seppellito il boss Nick Rizzuto dentro una bara d' oro massiccio, ma a nessuno è passato per la mente di dire che il Canada fosse caduto sotto il controllo dei Sopranos. In Serbia Zeljco Raznatovic detto "Arkan" è stato accompagnato nella tomba con onori militari da raffiche di kalashnikov, dopo che al matrimonio il ruolo di damigella di compagnia era stato svolto da un tigrotto (Arkan è stato anche onorato da un celebre striscione in curva Curva nord).

L' ultima osservazione, non meno importante delle altre, mi pare questa: tutto il polverone di polemiche, la raffica di invettive, hanno avuto l' effetto, spero indesiderato, di far apparire sensate persino le parole dei Casamonica. Eppure sono i Casamonica che dovrebbero avere paura di noi, non noi dei Casamonica. Se qualcuno è riuscito a far sembrare i Casamonica come degli statisti, è perché – come spesso accade in Italia – l' anti-Stato si vede, mentre lo Stato no. Peggio ancora: in Italia esiste una grottesca forma di istituzionalità tardiva, gassosa, piagnona, ideologicamente intransigente, politicamente corretta, e materialmente cialtrona che i nostri responsabili dell' ordine pubblico anche questa volta hanno incarnato perfettamente. In Italia abbiamo "lo Stato del giorno dopo" che prima tratta con Genny a' Carogna come se fosse Winston Churchill, per gestire la crisi. E poi il giorno dopo si arrabbia con se stesso per quello che ha fatto, e si assolve comminando furibondamente il Daspo, allo stesso capo curva a cui aveva chiesto aiuto. È lo stesso Stato che come cantava Fabrizio De Andrè in Don Raffaè, «Si costerna, si indigna, si impegna/ poi getta la spugna/ con gran dignità».

Bisognebbe provare a dire che, a parte la giusta ammenda per l' elicotterista che ha svolazzato sulle nostre teste (cosa che oggi non si consente nemmeno ai droni con cui i bambini giocano nei parchi), se un Casamonica vuole che il suo feretro entri in Chiesa con dei cavalli neri, o bianchi o con una carrozza di scena che pare uscita da un film di Luigi Magni, nessuno può impedirgli di farlo. Non solo perché è sbagliato, ma soprattutto perché è inutile. Vorrei che gli affiliati potessero sfilare anche con dei rendigota zebrati, se credono, ma che il giorno dopo leggendo i giornali si sentissero degli sfigati o dei pagliacci, e non martiri ed eroi. Invece siamo noi a temere i Casamonica perché avevamo mezzo consiglio comunale di Roma che si faceva pagare le campagne elettorali da Buzzi e Carminati, e ancora si difende dicendo: «Ma era tutto regolarmente registrato».

Vorrei che le dodici macchine di vigili urbani, la gazzella dei carabinieri e la pantera della polizia che hanno accompagnato il corteo funebre, avessero passato il tempo a scattare foto ai convitati, piuttosto che apparire (o peggio ancora a percepirsi) come damigelle di cortesia, un servizio di scorta di una autorità cittadina. I funerali sono delle forme di comunicazione, e quelli dei boss riti di pubblica affiliazione: la schedatura dei partecipanti fa più male di dieci divieti. Il kitch che abbiamo visto esibito non è espressione di sagacia, ma di goffaggine, è il codice comunicativo (ci insegna Gillo Dorfles) che lo ha studiato per una vita, delle società decadenti. È la mafiosità diffusa che subiamo tutti i giorni a rendere pericoloso quel funerale non una patacca, come il finto logo della Gucci, largo come un campo da calcio, nel parquet di casa. Dovremmo raccontare questo funerale supercafone come quello che è: non un gesto di ribellione allo Stato, ma una sfarzosa esibizione di cattivo gusto. Non è una nuova, pericolosa Vandea: tutt' alpiù un colorato Cafonal per Dagospia. Quello che deve cambiare è l' immagine dello Stato: quella dei Casamonica è già perfetta così. La polemica continua, Pd contro Marino Anche un boss ha diritto al funerale che preferisce.

Luca Telese

(Libero, 23 agosto 2015)


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Una risposta a “Anche un boss ha diritto al funerale che preferisce”

  1. Avatar Francesco
    Francesco

    Opinione interessante. Condivido appieno che non ci sia debolezza dello stato nel consentire un funerale, anzi. E debolezza secondo me, il fatto che questo funerale sia stato rappresentato come un atto di celebrazione della vittoria di un uomo, Vittorio Casamonica, nei confronti dello stato. E la dimostrazione che in Italia, ancora oggi, esistono persone che non credono nello stato Italiano, e a che ne farebbero volentieri a meno. E questa la sconfitta dello stato secondo me.

    Tralaltro correzione, non piccola se mi posso permettere: la musica del padrino e del maestro Nino Rota, non di Ennio Morricone :)

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