Il colpo di scena della seconda giornata del processo Gambirasio, arriva nel tribunale di Bergamo quando meno te lo aspetti. Arriva in maniera quasi casuale, dopo un fitto batti e ribatti, quando la sorella di Yara, Keba, risponde alle domande degli avvocati dicendo: «Era nato un battibecco, per modo di dire, su chi tra noi due avrebbe dovuto portare la radio in palestra». L’ avvocato Camporini le chiede: «Da quando?». Keba prende un respiro, ci pensa: «Da tanto. Ma non mesi… Meno di una settimana… diciamo… tre giorni». E, incalza l’ avvocato, «quando si è risolto il dilemma?». «Quello stesso pomeriggio».
Come per tutti i particolari di questo processo, anche il minimo dettaglio ha grandissime conseguenze sulle ipotesi e sull’ impianto accusatorio di tutta l’ indagine. È così anche stavolta. Nello stesso giorno, infatti, il perito dell’ accusa, Mattia Epifani, racconta che Yara non aveva accesso a nessun social network. Che non aveva profili Facebook. Che quel giorno non c’ è stato traffico, telefonate o sms dal suo cellulare. Sintesi: «Non abbiamo trovato prove di comunicazioni con soggetti terzi». Un bel problema. Keba aggiunge anche che subito dopo questa discussione, dopo pranzo, Yara non ha parlato con nessuno, ed è rimasta a casa a fare i compiti, nella stanza che condivide con lei. La conseguenza di quella discussione, in apparenza innocente, tra due sorelle che vogliono andare in palestra, e una madre chiamata a dirimere la questione, la capisco solo dopo un po’. Ancora Keba: «Non abbiamo detto a nessuno che sarebbe andata lei». Ma allora, se non ci sono sms, mail, telefonate, vuol dire che nessuno fuori della famiglia Gambirasio poteva sapere che Yara sarebbe stata in palestra, né tantomeno a che ora sarebbe uscita da lì. Cade l’ idea dell’ appuntamento, cade, di conseguenza, l’ idea che conoscesse il suo assassino. Eppure gli inquirenti ne sono così convinti che l’ unico capo di imputazione che hanno risparmiato a Bossetti è «sequestro di persona». Yara sarebbe salita in macchina di sua spontanea volontà, e la perizia sulle fibre dei sedili presenti sui suoi leggings prodotta dall’ accusa, proverebbe addirittura che è rimasta seduta «in posizione eretta», senza dimenarsi. Ma Bossetti come avrebbe potuto sapere quello che era stato deciso nella famiglia Gambirasio, se nulla era uscito dalla porta della casa di Brembate?
Quella di ieri, apparentemente, sarebbe dovuta essere una giornata di interrogatori calma, senza colpi di scena. E invece, come per magia, a fine giornata, mille informazioni si compongono nel taccuino, regalando diverse sorprese. E – per un nonnulla – la tensione tremenda che sempre aleggia in aula esplode, regalando meravigliose contese da trial movie. Come quando, proprio discutendo della perizia sul telefonino di Yara, l’ avvocato Camporini prova a chiedere al tecnico: «Questo telefonino che funzioni ha?». La Ruggeri salta sulla sedia come un puma: «Mi oppongo, signor giudice, non pertinente! Il mio perito ha lavorato sul contenuto del telefonino, non sul telefonino!». Camporini risponde con una flemma quasi ostentata: «Vostro onore, sono consapevole che qualcuno possa non capire, ma la difesa spiegherà solo alla fine il perché, e l’ estrema importanza di alcuni elementi». La Ruggeri: «Ehhh…». Camporini: «Non glielo anticipo: pazienti…». Qui, sorprendendo tutti, la Ruggeri vede rosso e alza la voce: «Io non capisco perché l’ accusa debba girare tutte le sue carte, e la difesa pretenda di mantenere ogni cosa coperta!». Camporini gongola: «Sarà una sorpresa, eh eh». La pm è furibonda, ricorre al sarcasmo: «E certo, come no?
Adesso salterà fuori che Yara ha fotografato il suo assassino e lo scoprono loro».
Sono seduto proprio alle spalle dei banchi delle parti.
Per un attimo mi perdo nella meraviglia dei dettagli. La difesa è decisamente dandy: Camporini, scarpe Duilio in pelle a tre colori; Claudio Salvagni calzini monotinta con ranocchie verdi fosforescenti. La Ruggeri, invece, sbarazzina: sotto la severità della toga e la gorgiera di pizzo bianco, pantaloni a pinocchietto verde pisello. Un conflitto antropologico, una tempesta perfetta, incomunicabilità tra pop-inquisizione e difensori liberal-chic.
Anche Keba Gambirasio, come tutte le ragazze di questa storia, è una ragazza bella.
Mentre parla, seduta in equilibrio sulla punta della sedia, mentre si morde le labbra nei momenti morti, provo indovinare il colore dei suoi occhi, a metà tra il verde chiaro e il grigio. Il perfetto taglio delle arcate sopracciliari regala luce allo sguardo. Anche Keba dice di non ricordare molte cose. Si dimentica addirittura che negli interrogatori aveva indicato un fidanzatino: «Io e mia sorella non parlavamo molto di queste cose». Però, quando Camporini le dice che lui, «maggiore» come lei doveva sorvegliare il proprio fratello, Keba rivela: «Le guardavo il diario per controllare se aveva fatto i compiti». E Bossetti? Lo riconosce, per caso? «Mai, mai… mai visto no». Alla domanda su perché abbia cambiato il suo account sul computer proprio la mattina dopo la scomparsa, Keba scuote il capo: «Non lo so. Non ricordo». Anche il dettaglio sugli autobus diventa importante: «Per andare a scuola – dice la sorella di Yara – prendevamo quelli di linea blu. I più vecchi avevano i sedili di pelle rossa.
Gli altri di stoffa… grigia». Gli avvocati di Bossetti si scambiano sguardi soddisfatti: i sedili di stoffa, infatti, possono giustificare le fibre. Ma il tempo della battaglia su questo elemento di prova deve ancora venire. Quando entra Matthias Foresti, il cosiddetto «fidanzato di Yara», mi domando perché l’ accusa lo abbia convocato. È un ragazzo molto carino, con il viso regolare, un ciuffo fantastico. Racconta che lui e Yara hanno avuto «una simpatia un po’ accesa» (risate in sala), ma che (per un anno!) questa relazione si è potuta sviluppare «solo per telefono». Come mai? «Le chiedevo “Dove ci vediamo?”, e lei mi rispondeva: “Mia madre non mi lascia uscire”».
Fabrizio Francese, l’ ultimo uomo che ha visto Yara viva, è il testimone che ogni inquirente sogna di incontrare. Preciso, meticoloso, esibisce una memoria di ferro, e se c’ è qualcosa che non torna sa spiegare perché. La sua precisione sposta anche ora la datazione del delitto di Yara, e forse avrà delle conseguenze. Ecco perché. Francese sta tornando da Milano, in treno. Arriva alla stazione alle 18.24. Perché?
«Perché ricordo che sono partito alle 17.39». Ricorda di aver ricevuto una chiamata della compagna alle 18.34. Perché?
«Perché mi chiedeva se riuscivo a prendere la bambina in palestra, ho guardato l’ ora». E perché? «Dovevo capire se facevo in tempo ad arrivare. Ero nel parcheggio, ho detto sì». E allora prende la macchina corre in palestra. Parcheggia lontano: «Ci avrò messo in tutto dieci minuti. Non vedo nessuno, non incontro nessuno, entro dall’ ingresso principale.
All’ altezza di un colonnino di cemento del corridoio incrocio Yara». È sicuro: «Sicurissimo. La conoscevo». Come mai? «L’ avevo conosciuta alle gare». E che succede? «Le faccio: “Ciao Yara!”. Anche lei mi saluta. O meglio, voglio essere preciso. Mi risponde con un sorriso. Aveva il passo spedito di chi sta andando da qualche parte».
Perché è molto importante questa testimonianza? Perché ci dice che «Alle 18.44 Yara è ancora lì». Salto sul taccuino, fino alla testimonianza del poliziotto che raccoglie la denuncia di papà: «L’ ultimo aggancio del cellulare è alle 18.55, a Brembate, in via Ruggeri». Penso all’ inchiesta, alla perizia sui furgoni secondo cui Bossetti sarebbe corso fino a Chignolo (almeno 45 minuti andare e tornare), e faccio due conti. Secondo l’ accusa era alla stazione di servizio alle 18.40, avrebbe dovuto caricare Yara pochi minuti dopo, uscire da Brembate non prima delle 19.00, andare e tornare in venti minuti a viaggio.
Quindi gli restano solo venti minuti per uccidere Yara nel campo di Chignolo. E qui tutto si incastra con l’ aspetto più interessante della testimonianza di Ilario Scotti, l’ aeromodellista che ritrova il corpo di Yara. Scotti è un altro bergamasco fantastico: dice solo quello di cui è certo. Ma conosce benissimo quel campo.
Tutti restano colpiti dal dettaglio pittoresco del «guardone» che rimane a fissarlo un quarto d’ ora, da lontano, quando trova il corpo, «e fugge via quando sente le sirene». Ma su questo forse ha ragione la Ruggeri: «Non mi pare un comportamento furbo – dice mentre mette via la toga – per un assassino». Scotti, però, dice un’ altra cosa. In tre mesi è stato a Chignolo non meno di dieci volte. Scopre Yara solo perché deve recuperare un suo aeromodello bianco e rosso caduto nel campo. È la seconda volta che gli succede, e deve fare una fatica incredibile per ritrovarlo. Perché? «Perché in quella stagione c’ erano cespugli irti e pieni di aculei, era impossibile avanzare dritti». E quindi? «Ho dovuto fare diverse serpentine per aggirare gli ostacoli». Ha impiegato quasi dieci minuti per fare i duecento metri che lo separavano dal suo aereo: «Solo dopo averlo recuperato ho visto il corpo». Quindi Bossetti in una sola ora avrebbe dovuto immobilizzare Yara, andare a Chignolo, portare il corpo in mezzo a quei rovi, mutilarlo in modo osceno, correre per tornare indietro entro le 20.00.
La testimonianza di Ippoliti fa cadere l’ ipotesi che Yara sia arrivata lì con le sue gambe. Ne porterebbe i segni, come minimo, sui vestiti. Il tempo, adesso è un elastico: più si ritarda la partenza, meno tempo c’ è per uccidere e tornare alle 20.00. La prova delle fotocamere che deve incastrare Bossetti, potrebbe diventare, per paradosso, il suo alibi.
Luca Telese
Rispondi