E poi, dal banco dei testimoni, come un colpo di scena silenziato, con un frase in codice quasi criptata, arriva – per la prima volta in aula – l’ammissione di una notizia che circolava da mesi in modo carsico, o correndo sottotraccia, o affiorando di rimbalzo dalle perizie. Sta parlando l’ex capo della squadra mobile di Bergamo, Gianpaolo Bonafini. È il momento del controinterrogatorio degli avvocati di Bossetti, siamo nel primo pomeriggio di una giornata terribilmente lenta, tra i banchi del pubblico del tribunale di Bergamo qualcuno addirittura sonnecchia. Anche la domanda arriva un po’ schermata, con calcolata furbizia processuale, in questa eterna partita tra accusa e difesa, dove nessuno dei duellanti vuole mai girare le proprie carte. L’avvocato Claudio Salvagni sta parlando d’altro, ma poi lascia cadere la domanda con apparente noncuranza: “E quindi ho capito bene quello che lei ha detto stamattina? L’esame del Dna di Ester Arzuffi, non era andato a buon fine?”. Bonafini prende un respiro lungo, rallenta con perizia il ritmo spedito del suo eloquio precedente. E poi, misurando ogni sillaba, dice con termini quasi asettici: “Sì, è vero…. l’esame della traccia mitocondriale aveva dato esito negativo”. Ovvero, tradotto in italiano: la polizia era già arrivata alla madre di Massimo Bossetti, ben due anni prima (!) dell’arresto del muratore di Mapello. L’aveva inserita in un gruppo di trentatré persone individuate sottoposte all’esame del Dna, con intuizioni investigative degne di un romanzo poliziesco. Ma poi in laboratorio, per quanto possa sembrare incredibile (scopriremo presto per colpa di chi, forse dei carabinieri) erano arrivati i campioni sbagliati, e la donna non era stata individuata. Infatti il Dna della signora Ester non era stato confrontato con quello del sospettato, “Ignoto numero uno” (come era ovvio fare) ma con quello della madre di Yara (che nulla aveva a che vedere con lei).
Tra cronisti e giornalisti era già noto, certo: ma sentirlo ripetere nel processo, in questo modo diagonale, fa impressione, soprattutto al termine di un interrogatorio avvincente, che a tratti sembra una lezione di criminologia del terzo millennio. Guardo per un attimo l’ex capo della Squadra mobile di Bergamo, ora a Venezia, seduto davanti alla Corte. Bonafini ha un bel viso regolare, dimostra meno di quarant’anni, ha un filo di barba perfettamente curata, veste di grigio, ha una cravatta blu con pallini bianchi, mani veloci, all’occorrenza le lascia pescare tra i faldoni che squaderna davanti a se, come un pianista che le fa correre sulla tastiera. Come un concertista esperto che non ha bisogno di controllare lo spartito, Bonafini non guarda mai in basso.
Si sta parlando di un fascicolo, per esempio, e la presidente lo sventola: “Le serve la sigla?”. E lui, senza abbassare lo sguardo alza la mano stringendolo tra le dita: “Grazie ma l’ho già trovato”.
In una giornata in cui non ci sono apparenti colpi di scena, dentro le architetture squadrate di acciaio e vetro del nuovo tribunale, si può restare per un attimo incantati di fronte a questo paradosso. Individuare il filo tenace e certosino di una indagine che a tratti assomiglia ad un censimento sociologico, intravedere il disegno imponente e ambizioso degli investigatori, capire la cura attenta e maniacale dei dettagli. Ma poi rimanere di stucco di fronte a questa constatazione: avevano in mano Ester Arzuffi due anni prima dell’arresto di Bossetti, ma non si erano accorti che era proprio lei la donna che stavano cercando ovunque.
Questa prima ricerca ieri, nel racconto di Bonafini, ha anche trovato una data esatta: “Seguendo il filo logico della nostra inchiesta eravamo arrivati ad isolare un gruppo di trentatré soggetti emigrati negli anni dalla zona della Val Seriana a quella dell’Isola di Bergamo. Ester Arfuffi aveva preso residenza nel 1966 a Parre, e nel 1969 a Brembate, e quindi rientrava pienamente in questi criteri. Abbiamo prelevato il suo campione il 27 luglio del 2012”.
Ma come si era arrivati a quel gruppo? Anche quello che pensavamo di sapere già, difronte al racconto dell’ex capo delle indagini di Polizia quasi impallidisce. Bonafini ripercorre l’incredibile mole di ipotesi e di tentativi, i numeri davvero impressionanti di questo censimento poliziesco. Ad esempio: “Uno dei primi numeri con cui ci siamo confrontati è quello degli iscritti alla discoteca Sabbie Mobili”. È il primo bandolo dell’indagine, il locale che sta di fronte al campo dove è stato trovato il cadavere: “Si trattava di 31.926 nominativi, una cifra da capogiro, per provare a controllarli tutti. Dovevamo restringere il campo”. Come? “Abbiamo isolato i campi di indagine. Ad esempio prendendo tutti quelli che avevano i telefonini accesi tra le 17.30 e le 18.55,nelle celle telefoniche della zona dove è scomparsa Yara”. Quanti? “120mila”. E poi? “Tutti quelli che erano nelle liste dei telefoni captati dalle celle e che avevano anche la tessera delle Sabbie Mobili”. In questo modo quanti se ne selezionano? “Altri 6mila soggetti”. E poi quelli con precedenti penali per reati sessuali (provate a indovinare? Ben 47!). “Oppure – continua Bonafini – cercando, con l’incrocio dei database, tutti quelli che abitavano a Brembate di sopra”. E così “si arriva ad altri 476 nomi”. Intuizione giusta, perché fra questi nomi c’è quello di Damiano Guerinoni, il ragazzo che è nipote del padre naturale di Bossetti, l’autista Damiano Guerinoni. Ma per poter risalire, da lui fino a quello zio, si deve imbastire una indagine nell’indagine, quasi una ricerca genealogica. Spiega ancora Bonafini: “siamo partiti da lontano….”. Dice il poliziotto. “E cioè?”, chiede la presidente. Risposta: “Da Batta, cioè Battista Guerinoni, il capostipite della famiglia, nato nel 1719”. Per quanto possa sembrare strano, per la seconda volta, in questo incredibile processo, in aula si ride. Ma Bonafini sembra uno specialista in Araldica e snocciola nomi e date: “Siamo scesi dritti lungo l’albero genealogico a Fantino Guerinoni nato nel 1751. Poi a Girolamo nato nel 1788… Poi a Gioangelo nato nel 1905 e Giogaetano nato nel 1912 …”. Guardo per un attimo il viso allibito di Bossetti: sta scoprendo per la prima volta l’elenco dei suoi trisavoli. Giuseppe Guerinoni autista è del 1935. Ha lo stesso aplotipo Y del ragazzo Damiano, ma nessuno – all’epoca – ha il suo DNA completo. Apprendiamo da Bonafini che prima questo Dna è stato prima ricostruito desumendolo in laboratorio da quello dei figli legittimi, poi da due cartoline miracolosamente conservate dalla figlia Daniela, che il papà le aveva inviato da Salice Terme (lasciando tracce del suo dna salivale sui francobolli che aveva leccato nel lontano 1980). “Poi una seconda conferma arriva dalla marca da bollo staccata da una patente conservata dal figlio Pierpaolo, e infine dal DNA viene definitivamente confermato – spiega Bonafini – con la riesumazione, a nostro parere nemmeno opportuna della salma”.
Avevano il padre, ma come è noto mancava il DNA del figlio. “Allora, per non lasciare nulla al caso – spiega l’ex capo della mobile mentre sale un brusio di stupore – abbiamo cercato tutti i Guerinoni dell’isola bergamasca, tutti quelli dei dodici nuclei familiari Guerinoni censiti, tutti i Guerinoni di tutti i paesi della provincia, tutti i Guerinoni che possedevano un furgone o una utenza telefonica che fosse accesa il giorno della scomparsa”. Ma anche in quel caso non trovano nessuno: “Così ci mettiamo a cercare un figlio naturale, illegittimo, o non riconosciuto”. E, contemporaneamente, tutte le donne che potrebbero avuto a che fare con Damiano Guerinoni. Ovvero: “Tutte le donne nate dopo il 1938, e tutte quelle che risulta avere incontrato dopo il 1952”. Mormorio. “Perché proprio quella data?”, chiede l’avvocato Camporini. Altra risposta sicura, altra risata in aula: “Abbiamo immaginato che partisse da 17 anni la…. Data della potenziale fertilità”. Vengono sottoposte a tampone tutte le donne che nelle due valli frequentate da Guerinoni nella sua vita hanno lavorato, fatto le cameriere nei bar, servito nei night club, tutte le donne di Salice terme in quella fascia di età, persino esercitato la nobile arte della prostituzione. E intanto si scandagliano anche tutti gli ex bambini nati tra il 1953 e il 1975 tra Isola bergamasca e Val Brembana. Quanti? Di nuovo le mani del pianista corrono tra i faldoni: “Per l’esattezza 1715 persone”. Il raggio della ricerca delle potenziali parenti si estende fino a 28 comuni. “Poi ci si concentra su 539 soggetti, 252 maschi, 287 femmine nati tra il 1920 e il 1970 e emigrati fuori. Testavamo il DNA mitocondriale – spiega Bonafini – cercavamo la linea di discendenza matrilineare”. E così che si era arrivati, scrematura dopo scrematura, ai famosi “33 soggetti emigranti verso Brembate”, è così che, nel 2012, avevano già rintracciato l’ago sottile di Ester nello sterminato pagliaio della bergamasca. Solo che chi deve mandare il campione de mitocondriale di Ignoto numero uno al laboratorio si sbaglia. Incredibile ma vero. La provincia stratigrafata, prima con le anagrafi, poi con i tabulati delle compagnie di telefonia mobile, in una folle corsa contro il tempo. Perché una volta individuati i nomi, ci voleva tempo per acquisirli, e bisognava far presto “perché sapevano che dopo due anni i tabulati sarebbero stati cancellati”. Quanti ne avete esaminati, alla fine? “Tantissimi. Più di 17mila”. Non era mai accaduto che le compagnie telefoniche facessero ricerche di quel tipo, è stata la prima volta”, spiega Bonafini. Già: ma dopo questo processo, capiterà sempre. Esco dal Tribunale sempre più convinto che – nel bene e nel male – questo processo cambierà il modo di indagare, di giudicare, e persino qualcosa delle nostre frenetiche vite.
Luca Telese
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