Dici Dario Fo e comunque ti devi confrontare con un gigante: in saggezza o in follia, in buona o in cattiva sorte, nel bene o nel male, nella coerenza o nell’ errore, visto che in tutti questi campi il futuro premio Nobel eccelleva con uguale intensità.
Fo vinse il più prestigioso premio della cultura Europa non per caso, e nemmeno perché era stato per un trentennio l’ idolo delle elites progressiste italiane. Ma – soprattutto – perché nella sua lunga carriera aveva letteralmente inventato una lingua drammaturgica, un teatro, un codice universale e comprensibile in ogni parte del mondo: il «grammelot». Mi è capitato – a Berlino – di sentire venire giù una sala piena di tedeschi perché le battute del suo personaggio simbolo «il Zanni», facevano ridere in qualsiasi nazione. Dario Fo aveva scoperto che il lombardo era uno dei dialetti fondanti dell’ Europa, ma aveva anche resuscitato, reinventandola, una lingua apparentemente morta, aveva ricostruito lemmi, vocabolario, mimica, connessioni, partendo da una interpretazione dei vangeli apocrifi così libera da diventare invenzione autoriale.
Il padre del Mistero buffo e del Fabulazzo osceno, però, è stato tanto solare nella sua figura artistica, quanto controverso, e contorto, nel rapporto con la propria verità e con la propria biografia. Ci mise quasi 15 anni ad arrivare ad ammettere la propria partecipazione alla Repubblica di Saló, in cui si era arruolato come volontario nel 1943.
E questo non perché Fo era divenuto il bersaglio prediletto delle inchieste dell’ implacabile e documentato Giorgio Pisa nò e del suo Candido, ma perché negli anni Settanta, quando si accesero i falò della polemica sul suo passato di «fascista e rastrellatore», il futuro premio Nobel era già il più famoso artista militante della sinistra intellettuale, animava il Soccorso rosso extraparlamentare all’ insegna dello slogan «aiuta i compagni in carcere», era il capostipite del teatro d’ avanguardia e di impegno, dello sperimentalismo, delle scenografie povere e innovative, della drammaturgia marxista. Quel Dario Fo era a sinistra del Pci, censurato dalla Dc bernabeiana, cacciato da Canzonissima, era il cantore di Giuseppe Pinelli (Morte accidentale di un anarchico), era l’ accusatore implacabile del commissario Calabresi, del regime (Pum pum chi è? La Polizia).
Poteva davvero «quel» Dario Fo – come scrisse nel 1975, lasciando tutti di stucco, sul Giorno Giancarlo Vigorelli: «Sapere di avere in pancia l’ incubo dei suoi trascorsi fascisti»? Poteva «quel» Dario Fo tutto rosso, essere lo stesso tutto nero – raccontato da Pisa nó «volontario nei parà e sottufficiale delle Brigate nere, che si era distinto per i rastrellamenti casa per casa nei centri vicini al lago di Como?».
Fino a quando gli era stato possibile Dario Fo – non l’ artista geniale – ma l’ uomo umanissimo e fragile aveva negato. Aveva raccontato (spesso smentito) che la casa di suo padre era il centro della Resistenza. Aveva trascinato i suoi detrattori nei tribunali di mezza Italia, denunciandoli. E poi – dopo due lunghi anni – aveva perso.
Era stato allora che Fo aveva raccontato per la prima volta, con molta amarezza, di quel tempo: «Io repubblichino? Non l’ ho mai negato. Sono nato nel ’26. Nel ’43 avevo 17 anni. O mi presentavo o fuggivo in Svizzera. Mi sono arruolato volontario per non destare sospetti sull’ attività antifascista di mio padre, quindi d’ accordo con i partigiani amici di mio padre». Ma anche questo non era stato facile, perché era una mezza verità, destinata ad essere smentita, per giunta, da Giacinto Lazzarini, un partigiano del Varesotto che Fo aveva definito «l’ eroe della mia infanzia». Fu di nuovo tribunale.
La sentenza di quel processo fu una vera tegola per l’ attore: «È legittima dunque per Dario Fo – scrivevano i giudici – non solo la definizione di repubblichino, ma anche quella di rastrellatore».
Ed è solo dopo queste parole che Fo sarebbe arrivato all’ ultimo grado di ammissione, prima in radio, poi in una confessione alla Repubblica: «Aderii alla Rsi per ragioni più pratiche: cercare di imboscarmi, portare a casa la pelle. Ho scelto l’ artiglieria contraerea di Varese -ammetteva Fo -perché tanto non aveva cannoni ed era facile prevedere che gli arruolati sarebbero presto stati rimandati a casa».
Questo faticoso processo di riappropriazione-arate-della propria autobiografia merita di essere ricostruito, perché il conflitto fra il Fo uomo, il Fo personaggio, e il Fo attore, la loro lunga e sterminata biografia, non sono oggi una macchia per il curriculum dell’ artista, ma un supplemento di complessità. Quella di Dario Fo – il completo nero con il girocollo, le movenze dinoccolate, gli occhi spalancati – sarebbe diventata una divisa prima e una bandiera poi. Pochi ricordano che quando nel1976 tornarono in Rai dopo un lungo embargo, Fo e la Rame lo fecero insieme al futuro successo Goldrake, con una sigla composta dal poligrafo Dario: «Ma che aspettate/ a batterci le mani/ a metter le bandiere sui balconi?». Era un programma festoso, impegnato, quasi per ragazzi, privo di ideologia. Era una necessità, forse un vincolo, nella Rai democristiana che li aveva riac colti, ed invece divenne una virtù, il codice di una stagione felice e creativa.
Fuori, nei teatri, moglie e marito erano l’ Impegno con la «i» maiuscola. È vero: Franca Rame e Dario Fo hanno sposato centinaia di cause perse – se non sbagliate – eppure va detto anche che lo hanno fatto con furore ideologico ma con personale disinteresse. Si sono esposti, schierati, contraddetti, per imperativo ideologico molto spesso – ma mai per bassezza. Ricordo due cene in cui discutemmo animatamente, dopo aver partecipato al programma di Michele Santoro: lei – eletta nell’ Italia dei valori dopo aver annunciato il voto contrario a qualsiasi missione di guerra, aveva scelto di astenersi per non far cadere il governo Prodi. Era bersagliata di insulti, avrebbe potuto reagire con rabbia, e invece allargava le braccia sconfortata guardando il marito: «Dario, che devo fare?». Lui aveva taciuto.
Per un uomo di parola, il tributo silenzioso dell’ amore. Il più grande. In un’ altra occasione, ancora più rocambolesca, ci ritrovammo a parlare dopo che – in Cuori neri – avevo ripubblicato i suoi appelli per me infelici in favore di Giovanni Marini, un giovane e malcapitato anarchico che nel 1973 a Salerno aveva accoltellato Carlo Falvella, un giovane missino quasi cieco.
Rispolverare quelle invettive, quella difesa spettacolare che aveva portato un reo confesso a vincere il premio Viareggio (e a uscire dal carcere) aveva – paradossalmente – fatto piovere sia su Fo che su dime, una valanga di ingiurie. A lui perché a distanza di trent’ anni quelle parole si sbriciolavano, e a me, perché i suoi fan mi consideravano un profanatore. Pensavo che l’ incontro sarebbe finito con una litigata. Invece Fo se ne fregava della polemica, e sembrava davvero mortificato che il giovane che aveva difeso e dimenticato – come raccontavo nella mia inchiesta – fosse morto alcolizzato avendo come unico conforto i dialoghi con la madre del ragazzo che aveva ucciso: «Io non ne sapevo nulla». Mi parve un gigante bambino.
Nella sua decima vita, dopo essere stato (anche) autore, sceneggiatore, presentatore televisivo, Dario Fo divenne un padre della patria incapace di vestire il laticlavio: aveva sposato l’ ascesa del Movimento 5 stelle, saliva sui palchi dei V-Day, si era spinto fino a firmare un libro a sei mani con Grillo e Casaleggio. Dario Fo è apparso come personaggio a cartoni in una puntata dei Simpson, ed è stato infilzato da un dardo avvelenatissimo della Fallaci che nella Forza della Ragione gli riservó una invettiva: «Fui esposta al pubblico oltraggio. Istigato, questo, da un vecchio giullare della Repubblica di Salò. Cioè da un fascista rosso scriveva la Fallaci – che prima d’ essere fascista rosso era stato fascista nero quindi alleato dei nazisti che nel 1934, a Berlino, bruciavano gli avversari».
La Fallaci non era sola. Fo aveva polemizzato platealmente con Giorgio Bocca – sul Venerdì – nei primi anni Novanta, in una polemica durata per ben quattro settimane: «Sono un guitto, un saltimbanco, un giullare, uno che sogna di morire sul palcoscenico piuttosto che vivere nella noia». L’ arte per fortuna o per disgrazia non ha bisogno della coerenza.
Questa autodescrizione – sono sicuro – gli andrebbe bene anche come epitaffio.
LUCA TELESE
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