Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Cronaca di una vittoria a bassa voce: ecco come Zingaretti è riuscito a diventare il nuovo segretario del PD

La vittoria trionfale di Nicola Zingaretti (sorprendente non per l’esito ma di certo per le sue proporzioni) è un caso di scuola da esaminare con attenzione. In primo luogo per capire come funziona la politica in Italia: queste primarie sono diventate un teorema che ti dimostra come l’elettorato sia sempre di più liquido, volubile, capace di scegliere una cosa, ma anche il suo esatto contrario.

Questo cortocircuito di opposti si verifica oggi in modi sempre più repentini e sempre più sorprendenti. Ma si svolge sempre secondo una logica che, anche quando non è immediatamente intuibile, guida le scelte di interi popoli elettorali, che migrano di continuo in cerca d’autore da un’offerta politica all’altra.

Quello di Zingaretti è un risultato emblematico per spiegare come e perché chi vota (alle primarie o alle politiche) possa passare con facilità da un estremo all’altro.

Prendete la campagna del governatore del Lazio. Zingaretti non aveva uno slogan forte (in senso letterale, perché “Piazzagrande” è solo la descrizione di uno spazio, non una idea: è la perimetrazione di una zona franca, non uno slogan). E infatti, apparentemente, non aveva parole d’ordine accattivanti sui grandi temi: cosa pensa il governatore dell’articolo 18? Se lo hai sentito parlare un po’ lo capisci, ma le carte non sono girate, e gli assi sono ancora nella sua manica.

Cosa pensa dell’alleanza con il M5s? L’elettorato lo sa che all’inizio Zingaretti aveva detto che si poteva fare e che poi ha detto di no, ma sa anche che lui con la sua avversaria pentastellata, Roberta Lombardi, nel Lazio ci governa, e che il suo vice, Massimiliano Smeriglio, ha detto che questa alleanza va fatta.

Cosa pensa Nicola Zingaretti del reddito? E delle pensioni? Su molti temi roventi il vincitore del primarie è stato, volutamente, oserei dire scientificamente generico. E non solo per una sua vocazione o per una sua attitudine, ma anche perché il segretario in pectore avvertiva che la sua stessa base – che in questi anni è stata bombardata di messaggi divisivi e controversi, e ha subito come ferite le ultime tre scissioni – aveva bisogno di un periodo di decantazione quasi fisiologico.

Il nodo, dunque, è che Zingaretti (o il suo staff, o entrambi, non fa differenza) hanno capito del loro popolo una cosa diversa dagli e oggi importantissima: e cioè che c’era un enorme bisogno di normalità, di basso profilo, di toni pacati. Come se avessero a che fare con un traumatizzato che viene riabilitato dopo un incidente.

Nell’ultima intervista di Zingaretti a La Repubblica prima del voto, non a caso, il titolo di prima pagina non era una promessa di aggiunta, ma una garanzia di sottrazione: “Basta boria!”.

Renzi non era nemmeno nominato, ma era sempre il soggetto sottointeso di questa comunicazione. E infatti il vero cuore della campagna, il vero slogan ripetuto mille volte, anche se non sembrava uno slogan, era: “Voltiamo pagina”. E il secondo era: “Non voglio fare il capo”. E il terzo era: “Spero che Renzi resti dentro il partito”. E il quarto messaggio era: “Voglio una coalizione più grande e larga del Pd”, il quinto: “Qualsiasi cosa facciamo la faremo insieme”, e il sesto: “Voglio un partito corale legato alla storia e all’identità della sinistra”.

Quello che i suoi sfidanti, ad esempio Roberto Giachetti, riassumevano in un allarme dispregiativo (“Torna la ditta!”), non rendendosi conto che – giusta o sbagliata – al milione e ottocentomila persone che sono andate a votare questa sintesi piaceva.

E non erano solo nostalgici delle Botteghe Oscure, ovviamente, a subire questo fascino ipnotico è vagamente camomilloso. Ma anche tanti che avevano creduto profondamente nella promessa di modernizzazione renziana, ed evidentemente ne erano rimasti scottati.

Un osservatore attento, di fronte a questo elenco di “chiodi” che contrappuntavano la lingua Zingarettiana si sarebbe potuto chiedere: ma, in proporzione, quanti di questi elettori delle primarie saranno stati gli stessi che nelle scorse primarie avevano votato Renzi proprio perché volevano “un capo”, “un partito a vocazione maggioritaria senza alleati”, volevano proprio “quella pagina Leopoldina”, una svolta “a destra” sui contenuti, uno strappo drastico con la tradizione comunista-postcomunista affine della ditta?

Potrebbero essere stati anche tutti, non è questo che conta. L’elettorato non decide più per continuità ideale, o ideologica, ma piuttosto per tentativi e carotaggi. Nella prima repubblica trovare un singolo elettore che avesse votato sia Pci sia Dc o socialisti era un esercizio arduo. In questa, esiste una quota enorme di votanti che hanno provato, uno dopo l’altro, Monti, Renzi e Di Maio (o addirittura Salvini).

Quindi la campagna di Zingaretti è stata centrata perché il governatore è stato diversamente anti-renziano. Non “anti” perché contrapposto in modo belluino, ma “anti” perché costruito con una comunicazione che era costruita come un calco rovesciato su quella dell’uomo di Rignano. Non “anti” perché nemico, ma anti perché ribaltato “per speculum”, in senso Leonardesco sul suo modello. E non “anti” per chiamare alla battaglia i nemici di Renzi contro i suoi sostenitori, ma per offrire una seconda possibilità ai sui fan più o meno delusi.

La rassicurazione domenica ha pagato. In tutto il resto d’Europa, dove il ribaltamento è il sale della politica, e rappresenta sempre la rottura – anche violenta – della continuità, questo processo è sempre il biglietto da visita con cui i leader si presentano al mondo. In Italia, nel paese degli ossimori immaginifici (“le convergenze parallele”), e nella sinistra dei paradossi, Zingaretti ha assunto dentro sé il renzismo come un anticorpo, ha avvicinato il problema ricambio come un artificiere che smonta la mina per poterla disinnescare.

Da conoscitore profondo della “ditta”, insomma, il governatore ha scalato la vetta nell’unico modo in cui si poteva farlo senza lasciare macerie intorno a sé. Ma questo significa che c’è un solo modo per capire come si declinerà lo “Zingarettismo” rispetto ai grandi temi di vivi in questi anni sono stati il campo di battaglia tra la destra e la sinistra del Pd: la prova della ciambella.

Sapremo se Zingaretti è altrettanto bravo a costruire, oltre che a disinnescare solo quando tradurrà la sua nube accogliente, in una ineludibile collezione di scelte.


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