La memoria di Enrico Berlinguer non è una reliquia indolore, una icona da adorare come se fosse un ecumenico santino, una figurina buona per coprire una storia pacificata e quieta. Casomai il contrario. In tempo di dissipazione e di smarrimento, come quelli che i progressisti stanno vivendo, la memoria di Berlinguer è ancora oggi incandescente e dirompente, è una eredità scomoda che rappresenta l’ultimo presidio dell’identità della sinistra in Italia. Quindi in queste ore, nell’anniversario della sua morte, non fatevi ingannare da chi versa lacrimucce cercando di annacquare la potenza del suo messaggio.
Enrico Berlinguer morte
L’undici giugno del 1984, dopo essere stato colpito da un ictus sul palco di Padova, Berlinguer moriva al termine di una agonia di due giorni. Tornava da Padova a Roma con l’aereo di Stato presidenziale messo a disposizione da Sandro Pertini, avvolto nella bandiera rossa e in quella tricolore, con il presidente che si chinava per baciare il drappo in una inquadratura che rivista oggi mi pare una rappresentazione sculturea dell’amore paterno.
Il giorno del funerale avevo 14 anni. Gli enormi parcheggi della periferia spettrale che abitavo, con vista sul raccordo anulare, si riempirono come d’incanto, fin dalle prime ore del mattino, di treni di gomme e di carrozziere d’acciaio arroventate, che luccicavano al sole in un riverbero accecante. Un mare di pullman, pullman da tutta Italia, tutti i pullman d’Italia, tutti quelli che erano disponibili quel giorno, nel giugno del 1984 furono affittati per portare militanti di ogni luogo e contrada a piazza San Giovanni.
Enrico Berlinguer funerali
Roma fu invasa, un milione di persone: il più grande funerale della storia d’Italia, e io – come tanti – sull’onda di quella emozione indescrivibile, presi la mia prima tessera della FGCI. Non feci un solo minuto di attività politica nell’organizzazione fino al 1987, l’anno del mio primo liceo. Ma facevo già parte di quel popolo. Ero cresciuto in una famiglia comunista, passando interi pomeriggi a disegnare con i pennarelli sul retro dei manifesti nella sezione Monteverde di via Sprovieri, o aspettando da bambino i miei genitori impegnati in interminabili e fumose riunioni di un luogo fantomatico che si chiamava “zona sindacale”, ovvero la sede del sindacato scuola della Cgil, alla Magliana.
I miei passavano da una militanza all’altra. Eppure eravamo una normalissima famiglia, solo una delle tante famiglie del milione di famiglie comuniste, tutte fatte di iscritti ad un partito che contava un milione settecentomila tessere. Un paese nel paese. Andavamo a comprare la verdura dal fruttivendolo Caponi, più lontano da casa, perché il fruttivendolo Caponi era “un compagno”.
E “Qualcuno era comunista”, avrebbe cantato dieci anni dopo Giorgio Gaber in una canzone che ha sintetizzato un’epoca “perché Andreotti/ non era una brava persona/ e perché Berlinguer era/ una brava persona” (e qui, per chi ha sentito la versione live, partono sempre un brusio e un applauso, come un colpo di frutta e una scarica elettrica).
Si facevano i pullman per le marce della pace, si prendevano le ferie per lavorare alle feste de L’Unità, si scendeva in piazza sulle spalle dei genitori con in mano le bandiere per manifestare, ed era bello farlo, quasi come andare in vacanza. Ad Assisi sotto una pioggia torrenziale, nel 1981, arrivammo in cima alla rocca, a piedi, zuppi, che Berlinguer era già a metà del suo discorso. E sul pullman del ritorno si parlò soltanto di quel mezzo discorso ascoltato, in attesa di poter leggere l’integrale su L’Unità del giorno dopo, per poter poi discutere in sezione della metà che mancava.
Quando avevo otto anni mi ritrovai sulle spalle di mio padre in mezzo a bandiere rosse e a bandiere democristiane il giorno del sequestro Moro. Ed ero un po’ confuso: “Ma non sono i nostri nemici?”. Risposta irata di mio padre: “I nostri nemici sono le Brigate rosse”. Non chiesi più nulla.
Nel 1981 e nel 1982, per una coincidenza inspiegabile, vincemmo per due anni di seguito il premio più importante e ambito della festa del tesseramento nella sezione di via Sprovieri: il prosciutto. Mia madre quasi sveniva per la gioia, e i compagni la seconda volta protestarono chiedendo a mio padre una sottoscrizione riparatoria.
Il prosciutto finì come un trofeo nell’alimentari Bartocci, di fronte a casa nostra, nelle mani di un negoziante che – pur essendo democristiano – ce lo custodiva (e tagliava) per amicizia, visto che non disponevamo di una affettatrice. Venivo mandato a prendere uno-due etti per volta, e Bartocci ogni volta che mi consegnava il pacchetto gridava: “Il prosciutto di Berlignueeeeer!”.
E poi: “Hai capito la festa di tesseramento? Quasi quasi mi iscrivo pure io”. E io chiedevo a mio padre: “Dice sul serio?”. E lui: “No, ma Bartocci ha simpatie per Donat-Cattin, è di Forze Nuove, pur sempre l’ala sinistra della Democrazia Cristiana”. Sembrava tranquillizzato, e mi acquietavo pure io. Così, da allora, quando vedo un prosciutto sano, per una associazione che non posso impedire, mi vengono in mente due cose: il sorriso di Bartocci e Donat-Cattin.
L’anno della morte di Berlinguer alla festa nazionale di Roma, tutte le sezioni del quartiere Tuscolano – tra cui la mia di via Chiovenda – ebbero in appalto la gestione del ristorante e io, mio padre e mia madre ci lavorammo tutte le sere, per un intero mese. Eravamo stati sfrattati dalla nostra casa di Monteverde. Poi miracolosamente, quando la mia famiglia stava per disgregarsi, avevamo trovato un appartamento in affitto nei palazzi dell’Enasarco a Cinecittà.
Nel nulla di una periferia in cui migliaia di persone erano state catapultate senza nessun servizio, senza nemmeno un autobus, senza negozi, senza neanche gli ascensori attivi (nei primi sei mesi in cui eravamo lì) noi ci sentivamo privilegiati perché avevamo già una famiglia che ci aveva accolto: la nostra nuova sezione.
Era un mondo in cui “compagno” era una parola che aveva un peso. Se era “compagno” era fidato. Se eri “compagno” andavi aiutato: vincoli di solidarietà, di affratellamento, di amicizia che si trasmettevano senza dover aggiungere una sola parola. Il capo cuoco del ristorante, Pino, un ormone di quasi duecento chili con i baffi, Romanizzino, ironico e buono, ci veniva a prendere con la sua Renault e alle sei del pomeriggio eravamo in cucina a preparare i sughi. Alle due di notte ci riportava a casa. Così le altre 300 persone che lavoravano (gratis) ogni giorno alla festa.
Come poteva accadere? Non lo so. Accadeva, è accaduto: per noi all’epoca era naturale. Anche Pino prendeva le ferie dalla sua mensa e le passava tra i mestoli e i fornelli del ristorante della festa. La sera prima di andarcene, il compagno contabile leggeva ad alta voce gli incassi e immancabilmente, dal fondo dello stand, partiva un applauso. Come se quel fatturato contribuisse in qualche modo alla lotta per una società più giusta, come se fosse un modo – il modo che avevano i militanti per onorare la memoria del segretario del partito morto in battaglia. Seppi solo dopo che la festa aveva chiuso in deficit e fu un dolore grande. Come la notizia di aver perso insieme una eredità e un congiunto.
Enrico Berlinguer Padova
Berlinguer era morto alla fine di quel comizio pazzesco di Padova, in una notte così folle che se tutto non fosse stato filmato e documentalmente riprodotto dovrei immaginare che fosse un ricordo inventato. Era partito da Roma, era andato a Genova, era approdato in Veneto già stanco. Moriva, sceso da quel palco, dopo essersi sentito male, dopo aver voluto testardamente finire il comizio, moriva con la gente che dalla piazza di Padova gli gridava “Enrico! Enrico!”.
Implorandolo di fermarsi, moriva dicendo: “I comunisti si sono battuti per dare la libertà anche a chi non era comunista”, come può verificare chiunque abbia il fegato di rivedere in integrale quell’ultimo comizio: una tragica passione in diretta. Sono andato a riguardarlo, il film dei registi comunisti che fu preparato a tempo di record, prima di scrivere questo articolo, come per sincerarmene. Sembra un ologramma di un altro secolo, e in effetti lo è. Il quadro balla e a tratti salta, l’audio è pessimo, le luci e la qualità dell’immagine rendono questo ritratto livido, cupo, drammatico, ma anche poetico e carico di afflato ideale. Il taglio di luce degli occhi di Enrico, esaltato da questa fotografia, sembra un ritratto impressionista nella notte della Repubblica.
Enrico Berlinguer 35 anni dalla morte
In questi 35 anni che ci separano dalla morte di Berlinguer in tanti hanno provato a disinnescare la forza morale ed etica di quel suo testamento politico. Hanno provato a rinnegare Berlinguer, a trasformarlo in una figurina indolore. A spiegare che aveva sbagliato tutto. Una giornalista (ex) comunista come Miriam Mafai ha scritto un saggio intitolato “Dimenticare Berlinguer” (per fortuna, anche di Miriam, ad essere dimenticato è stato il saggio).
Una intellettuale come Claudia Mancina ne ha scritto un altro – “Beringuer in questione” – più o meno con lo stesso messaggio. Hanno provato a dire che Berlinguer fosse conservatore, che non capisse la modernità. Che fosse destinato alla sconfitta, proprio lui che in quel 1984, presente nelle liste anche dopo la sua morte, trascinò il Pci al primo e unico sorpasso della Dc in una elezione nazionale.
Persino Valter Veltroni, in un film umanamente coinvolgente (ma politicamente bugiardo), si è spinto a dire che la politica di Berlinguer si era esaurita con la fine del compromesso storico. Nel film di Veltroni, mentre scorrono le immagini di Berlinguer davanti ai cancelli della Fiat, l’ex sindaco di Roma dice con una espressione greve:” Berlinguer è morto dopo il sequestro Moro”.
Piero Fassino si è spinto a scrivere, con altrettanto macabra miopia (nella sua autobiografia, “Per passione”) che “Beringuer era stato colpito da un ictus perché aveva perso la partita a scacchi con Craxi” evocando, nientemeno, il Settimo Sigillo di Bergman. Follia. E ovviamente nulla di tutto questo è vero. Goffi tentativi di uccidere il padre, messi in atto da chi a quel padre doveva ogni cosa.
Vero invece è che tutto quello che Berlinguer ha fatto da quel momento (quello individuato da Veltroni) in poi ha preparato la sua ultima battaglia, è stata una lunga rincorsa verso quel comizio-testamento di Padova.
La lotta contro i licenziamenti a Torino, quel suo discorso dalla parte degli operai (“Se sceglierete di occupare, il Pci sarà dalla vostra parte”) le tante manifestazioni contro i missili (“Sia quelli dell’est che quelli dell’ovest!”), le visite ai Francescani, la fine della solidarietà nazionale, la condanna dell’invasione della Polonia, la lotta contro l’ala filosovietica del partito che gli remava contro, la lotta contro l’ala migliorista che sognava “l’Unita socialista” (con Craxi!), la denuncia del terremoto (chiamato da un giovanissimo Antonio Bassolino), quando Berlinguer si precipitò in Campania, a denunciare l’assenza dei soccorsi, e a sollecitare a sua volta l’intervento di Sandro Pertini (che ovviamente ci fu).
Enrico Berlinguer Questione Morale
E poi ovviamente l’Intervista a Eugenio Scalfari sulla Questione morale (“I partiti hanno occupato lo Stato…”). La teorizzazione della “diversità”. I fischi raccolti a Verona al congresso dei socialisti con Bettino Craxi che rivendicò l’agguato (“Non ho fischiato solo perché non so fischiare”). E poi l’ultima grande battaglia simbolica, quella contro il taglio della Scala mobile, che oggi viene quasi completamente rimossa. Stare da una parte, pagandone il prezzo. Questa era la lezione. E questa è una memoria così difficile da maneggiare per chi nel Pd di questi anni non è stato più da nessuna parte, oppure – come Matteo Renzi – si è più semplicemente collocato dall’altra parte.
Un paradosso non difficile da spiegare: i dirigenti dell’ex Pci, Pds, Ds hanno sentito come un incubo il peso dell’eredità politica di quest’uomo, caduto in battaglia come nessuno prima e nessuno dopo di lui. I dirigenti che abiuravano il comunismo prima, e che abbracciavano la Margherita poi, non sapevano come spendere politicamente quel messaggio così dirompente, e per anni, mentre cresceva il mito di Berlinguer, hanno impiegato parte considerevole del loro tempo a prendere le distanze da lui.
Solo uno di loro, Massimo D’Alema, ha scritto un libro di amarcord bellissimo e struggente (“A Mosca l’ultima volta”) che andrebbe ricordato se non altro per la celebre battuta di Berlinguer sul socialismo reale, raccolta in quelle pagine, che pronuncerà di fronte alla salma fredda di Andropov: “L’agricoltura va male, anche se lo negano tutti, i dirigenti non dicono mai la verità, anche se non sarebbe necessario, e la carta dell’involucro rimane sempre attaccata alle caramelle. Come può funzionare un paese così?”.
Battuta icastica e folgorante di un uomo taciturno, schivo, ma sempre capace di grande ironia. Lo stesso uomo che sfidando il suo caposcorta, Alberto Menichelli, quasi per scommessa, diceva: “Adesso io mi metto un capello di sguincio per coprirmi il viso, attraverso questa piazza e non mi riconosce nessuno”. Ci aveva provato. E invece si era ritrovato sommerso di abbracci, baci, ovazioni, costringendo Menichelli e la scorta a farsi largo per “recuperarlo” tutto intero.
Berlinguer era da una parte e lo era per scelta di vita. Lui, figlio di una famiglia benestante e progressista da tre generazioni, con un nonno garibaldino e un padre socialista, era diventato comunista con i moti del pane a Sassari, sfidando il fascismo. A ventun anni scriveva dal carcere lettere di gioco al fratello minore, Giovanni, chiedendogli di impegnarsi. Comunista Enrico lo era diventato divorando i testi trovati in una libreria clandestina dello zio (e del cugino, anarchico e un po’ matto) nel pieno del ventennio fascista. Aveva letto così Bakunin, Marx, e persino Lenin.
Berlinguer stava da una parte perché “non sono interessato al potere – come avrebbe detto in una celebre intervista a Giovanni Minoli – se non come strumento per cambiare lo stato di cose presente”. Come spiegarlo ad una generazione di dirigenti politici che ha fatto di tutto per non cambiare, pur di conservare il potere?
Così era necessario disinnescare Berlinguer per provare a riconvertirlo in una icona agiografica e politicamente non contundente. Ci provano da un terzo di secolo ma non ci riescono, perché attraverso canali carsici, quasi insondabili ma potentissimi, il mito di Berlinguer ogni anno diventa più potente, e l’immagine della sinistra esanime, e dei dirigenti immemori che dovrebbero raccogliere la sua eredità (senza riuscire ad esserne degno) sempre più sbiadita. Un giorno qualcuno chiese alla ministra Boschi se preferisse Amintore Fanfani o Enrico Berlinguer. E la signorina, non ancora madrina costituente, rispose: “Preferisco Fanfani, ma perché è di Arezzo, come me”. Senza parole.
Enrico Berlinguer: la Forza etica
La memoria di Berlinguer oggi è incredibilmente vivida tra tanti giovani che fanno politica, ma anche fra tantissimi che non militano nel Pd o in nessun altro partito: è diventata quello che era negli ultimi anni: pura forza etica.
Ho raccontato in “Qualcuno era comunista” l’incredibile potenza dello strappo di Berlinguer con Mosca. Una battaglia in tre tempi che inizia nel 1968 sotto un albero di mele (per sfuggire agli spioni brezneviani) quando Enrico è ancora vicesegretario, prosegue con la condanna dell’intervento in Cecoslovacchia e prosegue fino al discorso di Mosca in cui al congresso del PCUS Berlinguer ha il coraggio di pronunciare la bestemmia in Chiesa, affermando “il valore universale della democrazia” davanti a Leonid Breznev in persona.
Non si può capire la portata di questo strappo se non si ricostruisce il clima di consenso dogmatico e cieco che accompagnava il socialismo reale nella sua fase crepuscolare. Il discorso di Berlinguer fu censurato persino nella traduzione simultanea. E un imbarazzato custode ideologico come Suslov il giorno prima aveva provato a dire a Berlinguer che non poteva usare la parola “pluralismo” davanti ai delegati “solo perché quella parola, compagno Berlinguer, nella nostra lingua semplicemente non si usa più”.
Il segretario del Pci si era portato dietro Gianni Cervetti, un dirigente che aveva studiato a Mosca, compagno di classe di Michail Gorbaciov: e aveva sorriso: “Ah si? Vorrà dire che se non si usa più la ricorderemo noi”. Nell’imbarazzo delle rispettive delegazioni gli fu dimezzato il tempo dell’intervento. Ma quando Berlinguer pronunciò la parola “democrazia” e la parola “socialismo” tutti capirono perché, e nella grande sala ornata dai marmi ci fu un boato che ancora oggi si può sentire nelle registrazioni di quella giornata.
Il “Time” gli dedicò la copertina, e tutti i giornali del mondo raccontarono di quello strappo. E sarebbe del tutto inutile perdere tempo a misurare l’abissale distanza tra la caratura di quest’uomo, della sua umanità, con quella degli gnomi che lo hanno seguito. Ecco perché la sinistra non può che ripartire, se vuole ripartire, da questo biografia, da questo coraggio, e da questa lezione.
Alla festa di Roma, nel 1984 lambiccandomi su come far guadagnare di più il partito, mi venne in mente di far bucare le pareti del “nostro” ristorante, che confinavano con gli spalti dell’Arena cinema, per aprire uno spaccio affacciato sull’immensa spianata dove ogni giorno entravano un migliaio di persone. Ogni sera in quella Arena si proiettavano un film d’autore, e poi la versione integrale del film dei compagni registi comunisti sui funerali di Berlinguer.
Il compagno contabile era scettico sull’idea. Il segretario di zona diceva: “E che facciamo? Chiamiamo i carpentieri e gli chiediamo di segarci il ristorante?”. Il compagno cuoco Pino disse: “È un’ottima idea. Chiamateli”. Mi trovai affacciato a quel chiosco improvvisato, a vendere lattine, tutte le sere, per trenta sere. Ovviamente vedendo trenta film d’autore, una bella scuola, e rivedendo per trenta volte il film sui funerali di Berlinguer. Potrei ripetere a memoria frammenti di quell’ultimo discorso, pronunciato da Enrico con frasi spezzate, bocca impastata, pause e bicchieri d’acqua bevuti, sguardi che corono lontano mentre l’emorragia devasta il suo cervello.
Ognuna di quelle parole ha un valore per me. E invece mi piace ricordarlo con una frase semplice e diritta che mi ha risuonato dentro tante volte nella mia vita. Berlinguer la pronuncia in quella celebre intervista a Giovanni Minoli, a Mixer, con il suo enorme primo piano che lo sovrasta nell’inquadratura e rende potente ognuna delle sue tante rughe espressive. Chiede Minoli: “Di che cosa va più orgoglioso?”. E lui (pausa): “Di non avere mai tradito gli ideali della mia giovinezza”.
Enrico Berlinguer | Chi era: la vita
Enrico Berlinguer nasce il 25 maggio 1922 a Sassari. Figlio di Mario Berlinguer, un avvocato italiano di idee repubblicane e socialiste e vicino alla massoneria. Studiò presso il liceo classico Domenico Alberto Azuni di Sassari, lo stesso in cui negli anni hanno studiato i presidenti della Repubblica Antonio Segni e Francesco Cossiga, il segretario comunista Palmiro Togliatti e numerosi altri esponenti della politica e della società italiana.
Nel 1943 si iscrisse al Partito Comunista Italiano (Pci). Nel 1944 Berlinguer fu accusato di essere tra gli istigatori di un assalto ai forni di Sassari compiuto per la fame da numerosi cittadini: per questa ragione fu trattenuto in carcere per tre mesi. Recatosi lo stesso anno a Salerno – già liberata dagli alleati – Berlinguer entrò in contatto con il segretario comunista Palmiro Togliatti, al quale fece subito una buona impressione.
Nel 1949 Enrico Berlinguer divenne segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana (Fgci), l’organo giovanile del Pci, entrando così di diritto nella direzione del partito comunista, al fianco di esponenti di primo piano quali il segretario Togliatti, il segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Amendola e Celeste Negarville.
Dal 1957 Berlinguer fu responsabile delle Frattocchie, la scuola politica del Pci situata presso l’omonima località dei Castelli Romani, e lo stesso anno si recò in Sardegna per ricoprire il ruolo di vicesegretario, per poi tornare a Roma a lavorare attivamente nella segreteria del partito un anno e mezzo dopo.
Nel 1964, in seguito alla morte di Palmiro Togliatti, il nuovo segretario del Pci divenne Luigi Longo. Berlinguer, due anni dopo, divenne il segretario del partito nel Lazio, e nel 1968 divenne per la prima volta deputato. Quando nel 1969 le condizioni di salute del segretario Luigi Longo peggiorarono, si decise di scegliere un vicesegretario che lo affiancasse nel lavoro. In quell’occasione, il gruppo dirigente comunista scelse per il prestigioso ruolo Enrico Berlinguer, preferendolo a Giorgio Napolitano.
Nel 1969 si recò a Mosca in veste di vicesegretario, manifestando le prime frizioni tra il Pci e l’Unione Sovietica, tenendo infatti il discorso più critico verso Mosca in quell’occasione.
Nel 1972 Berlinguer subentrò definitivamente a Longo come segretario. Durante questo periodo, il Pci iniziò un dialogo con la Democrazia Cristiana (Dc): in quest’ottica, nacque quell’idea comunemente detta compromesso storico. Il compromesso storico nasceva sostanzialmente dal fatto che in Italia i governi si erano spesso formati escludendo a priori il Pci, per via del suo orientamento filosovietico.
Tuttavia, visto l’allontanamento dei comunisti italiani dall’Urss, Berlinguer puntava a un’alleanza tra diverse forze democratiche per rendere il Pci a tutti gli effetti una forza di governo e mettere l’Italia a riparo da possibili tendenze autoritarie. Sempre sotto la guida di Berlinguer, il Pci nel 1976 riuscì a raggiungere il suo massimo storico, ottenendo il 34,4 per cento dei voti, rischiando per la prima volta di superare la Dc.
Un tema caro a Berlinguer fu la cosiddetta questione morale, una campagna moralizzatrice lanciata a fine anni Settanta dal Pci contro un uso sbagliato della Cosa Pubblica. Nel 1984 Berlinguer si recò a Padova per la campagna elettorale in vista delle elezioni europee. Il 7 giugno, tenendo un comizio in piazza della Frutta, fu colto da un ictus.
Palesemente colpito dal malore, portò ugualmente avanti il discorso fino alla fine, nonostante gli inviti da parte della folla a fermarsi. Rientrato in albergo, Berlinguer entrò in coma e l’11 giugno morì. I suoi funerali si tennero il 13 giugno 1984, presso la basilica di San Giovanni in Laterano a Roma, di fronte a circa un milione di persone e i leader di tutti i partiti italiani, compreso Giorgio Almirante, leader del Movimento Sociale Italiano.
La figura di Berlinguer fu un punto di riferimento per la sinistra italiana e non solo, e spesso è considerato l’esempio di una politica pacata e al tempo stesso appassionata. Nel 2014 l’ex sindaco di Roma ed ex segretario del Partito Democratico, Walter Veltroni, ha realizzato un film-documentario sulla vita di Enrico Berlinguer, dal titolo
Quando c’era Berlinguer.
Enrico Berlinguer Frasi
Ecco alcune tra le più celebri frasi pronunciate da Enrico Berlinguer
. “Se i giovani si organizzano, si impadroniscono di ogni ramo del sapere e lottano con i lavoratori e con gli oppressi, non c’è più scampo per un vecchio ordine fondato sul privilegio e sull’ingiustizia.”
. “I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela.”
. “Pensiamo che il tipo di sviluppo economico e sociale capitalistico sia causa di gravi distorsioni, di immensi costi e disparità sociali, di enormi sprechi di ricchezza.”
Enrico Berlinguer Frasi
. “Noi siamo convinti che il mondo, anche questo terribile, intricato mondo di oggi può essere conosciuto, interpretato, trasformato, e messo al servizio dell’uomo, del suo benessere, della sua felicità. La lotta per questo obiettivo è una prova che può riempire degnamente una vita”.
. “I partiti hanno occupato lo Stato e tutte le istituzioni a partire dal governo, gli enti locali, gli enti di previdenza, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai tv, alcuni grandi giornali.”
. “La questione morale esiste da tempo, ma ormai essa è diventata la questione politica prima ed essenziale perché dalla sua soluzione dipende la ripresa di fiducia nelle istituzioni, la effettiva governabilità del paese e la tenuta del regime democratico.”
Enrico Berlinguer Frasi
. “Il comunismo è la trasformazione secondo giustizia della società”. — Enrico Berlinguer da Tribuna politica, 7 febbraio 1980
. “L’esperienza compiuta ci ha portato alla conclusione che la democrazia è oggi non soltanto il terreno sul quale l’avversario di classe è costretto a retrocedere, ma è anche il valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista. Ecco perché la nostra lotta unitaria (che cerca costantemente l’intesa con altre forze d’ispirazione socialista e cristiana in Italia e in Europa occidentale) è rivolta a realizzare una società nuova – socialista – che garantisca tutte le libertà personali e collettive, civili e religiose, il carattere non ideologico dello Stato, la possibilità dell’esistenza di diversi partiti, il pluralismo della vita sociale, culturale, ideale”.
. “Una società più austera può essere una società più giusta, meno diseguale, realmente più libera, più democratica, più umana”.
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