Il Pd verso le elezioni rischia la scissione. Renzi ora è all’angolo e potrebbe rompere.
Ormai i partiti sono due: Zingaretti si dice «pronto alla sfida», ma l’ex premier resta spiazzato. Le liste ora non le farà il Bullo
Nicola Zingaretti è pronto alle elezioni. Matteo Renzi non è detto, anzi. Se nel voto sulla Tav che ha iniziato la fine del gialloblù in Aula sono andati in scena due governi, nelle stesse ore si sono palesati anche due Partiti democratici, che si sono sfidati sui fronti opposti. Senza esclusione di colpi, e che ora affrontano in modo radicalmente diverso la delicata fase aperta da Matteo Salvini ieri sera.
Uno, quello del segretario, desidera ardentemente più di ogni altra cosa il voto anticipato (e forse sarà accontentato), l’altro lotta con le unghie con i denti per prolungare la legislatura, e non e detto che non ci riesca puntando sulla regia di Sergio Mattarella, che in fondo è li grazie a Renzi.
Uno, quello di Nicola Zingaretti, sogna una nuova coalizione ulivista, l’altro, quello di Matteo Renzi, ha ancora in mente la vocazione maggioritaria che oggi sembra un’utopia. Il primo guarda a sinistra, e alle socialdemocrazie, l’altro guarda al centro, e ai liberali europei. Il primo sogna l’unità, il secondo aspetto il momento giusto per una scissione.
Ieri Renzi ha detto per la prima volta che questo partito di centro «serve», aggiungendo però che non è lui che lo farà, come se parlasse da politologo e non da dirigente del Pd. Ma sono sinecure, furbizie tattiche, veli di prudenza che verranno strappati o cadranno inevitabilmente, se si va al voto anticipato, che da ieri è l’opzione più forte sul piatto. «Magari di forze di centro ne nascerà più d`una», vaticina l’ex premier in un colloquio con La Stampa realizzato prima del voto sulla Tav ma pubblicato ieri: «Il problema casomai e se ne riesce a nascere davvero una seria, fatta bene».
Parole che, proprio perchè restano vaghe mentre la situazione e seria, scatenano una guerra assurda, incessante, politica, ma anche virata di ambizioni personaIi e di rancori, che si chiuderà soltanto con una scissione, potenzialmente accelerata dal voto anticipato.
Tutto sommato proprio questa situazione e tra i maggiori catalizzatori per la richiesta furiosa della Lega. Quando ricapita un alleato di governo tramortito, e un’opposizione fatta di due partiti (Pd e Forza Italia) in diversa ma simile fase di disgregazione? Ieri un dirigente democratico che conosce entrambi i duellanti come Carlo Calenda ha messo nero su bianco questa percezione in un tweet che ha fatto il giro del partito e della Rete: «Il punto e semplice: Matteo Renzi non fa il “senatore semplice”, ma il leader della corrente di minoranza del Pd che È maggioranza nei gruppi parlamentari. Benissimo» , ha aggiunto Calenda, «basta dirlo apertamente e comportarsi di conseguenza. Il che implica coordinarsi con l’altra parte del Pd».
Parole apparentemente non polemiche, ma che ovviamente – per il loro contenuto – hanno fatto imbufalire un fedelissimo di Renzi, il deputato Luciano Nobili, uno dei dirigenti più importanti sul territorio, a Roma. Nobili si è inviperito e sono volati gli stracci: «Renzi», ha detto rispondendo all’ex ministro, «non è leader di alcuna minoranza. Quando ha partecipato al congresso, due volte, ha stravinto. Fa dura opposizione a Lega e M5s mentre voi impedite la mozione di sfiducia contro Salvini e volete far passare la mozione NoTav del M55. Basta», ha concluso Nobili «con questa ossessione su Renzi».
Notate il «voi». Quel «voi» è come un oggetto contundente. In realtà i renziani avrebbero bisogno di tempo e non vogliono perdere le posizioni di cui godono in Parlamento: per questo avrebbero preferito che il governo non cadesse, e avevano fatto di tutto perché la loro mozione sulla Tav potesse passare, raccogliendo il sostegno leghista. Per questo volevano un voto di fiducia che
avrebbe ricompattato i due litigiosi e ormai ex alleati, e per questo hanno fatto di tutto per provocarlo (mandando su tutte le furie Zingaretti, due giovedì fa).
Sempre per questo fino a ieri Renzi si preparava a una battaglia di lungo periodo, che nei suoi piani lo avrebbe riportato alla segreteria, magari sfidando Zingaretti nelle primarie dopo averlo logorato. Per questo l’interesse di Zingaretti coincideva con quello di Salvini. Mentre adesso – se si voterà – Renzi è quasi costretto a uscire, a meno che non sia disposto a vedere sterminata la sua corrente piena di nominati (tutti collocati nella famosa notte prima delle elezioni 2018). Le liste, a questo giro, le farà Zingaretti, e per i renziani il futuro nel Pd si fa improvvisamente cupo. Proprio queste due anime nel Pd saranno cruciali nella partita a scacchi che ora Salvini ha aperto con Mattarella.
In caso di incarichi esplorativi, di governi del presidente, che faranno i due Pd? Si presteranno ad accordi con i M55? E con Forza Italia? Stavolta non ci sono mezze misure, non esistono i pareggi. Sul palco della sinistra resterà solo un vincitore. E un cadavere. Per questo Zingaretti ha già adeguato i toni: «Siamo pronti alla sfida. Nelle prossime elezioni non si deciderà quale governo ma il destino della nostra democrazia. ll Pd chiama a raccolta tutte le forze che intendono fermare idee e personaggi pericolosi. Al lavoro per far vincere l’Italia migliore». Chissà se tra i personaggi pericolosi il presidente della Regione Lazio annovera anche Matteo Renzi. Chissà se Renzi farà parte del «fronte popolare» sotto altre insegne.
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