Luca Telese

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Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Di Maio fa le bizze: Conte preferisce Mattarella al Movimento 5 stelle

Quindi ieri nessun incontro tra i due leader, nessuna concessione alla dialettica, e per quasi sette ore – un tempo lunghissimo per i fusi orari del Palazzo e dei cronisti da Web – muro contro muro e fumate nere. Poi, in serata tutto si scioglie nell’insostenibile leggerezza di un vertice, in cui il Pd accetta alcuni dei punti posti da Luigi Di Maio: stop alle trivelle, stop ai nuovi inceneritori, revisione delle concessioni autostradali, lotta all’immigrazione (alcune di queste sono non concessioni, perché – per esempio – la linea sugli sbarchi e già la linea di Marco Minniti e Paolo Gentiloni).

E la questione del vicepremier, che sembrava deflagrante? Viene postposta come se fosse minima quaestio con una formula di ellissi quasi straordinaria: «Deciderà Giuseppe Conte». E la fumata bianca della sera viene sigillata da una frase del capogruppo dem Andrea Marcucci: «Abbiamo avuto rassicurazioni sui contenuti». Sempre serafico, d’altro canto, il capogruppo del M5s Stefano Patuanelli (ormai un vero e proprio regista della trattativa) faceva eco cosi: «La ricognizione con Conte è andata bene, ci sarà un incontro con il Pd nelle prossime ore».

Ma perché allora quel duello rusticano, con mani legate al volante alla James Dean nella gara fra macchine di Gioventù bruciata? Perché quella raffica di ultimatum e di azzardi? Non é solo scena. Se volete capire perché il Pd ha deciso di giocare il tutto per tutto, in questo finale dipartita, e se volete capire anche perché Di Maio punta i piedi sulla richiesta dei galloni da vicepremier, dovete provare a guardare le cose in un modo diverso da come appaiono a prima vista.

La frase del famoso discorso di Di Maio sulla rottura che ha fatto imbufalire i dirigenti del Nazareno, per esempio, è quella ormai celebre in cui il capo politico del Movimento 5stelle dice: «Conte è un premier super partes». Il che, tecnicamente è di certo un’affermazione falsa, perché Conte a Palazzo Chigi ce lo ha messo con il suo ultimatum precedente proprio Di Maio.

Ma è anche un’affermazione politicamente vera, perché da quel momento in poi, il presidente del Consiglio ha iniziato a giocare una sua partita, diventando il leader virtuale di un suo partito. Che per ora è virtuale anche quello, ma che dal giorno del giuramento del governo in poi non lo sarà più.

Il sondaggio di Nando Pagnoncelli sul Corriere della Sera che attribuisce un recupero nei sondaggi di sette punti per il Movimento (grazie alla popolarità di Conte) non porta un senso di sollievo, ma alimenta le paure di quanti nel movimento dicono a Di Maio: «Attento, stanno lanciando un’opa su di noi».

Per questo i più intelligenti tra coloro che sono contrari all’accordo sembrano schizofrenici, quando – ad esempio Alessandro Di Battista ieri – dicono: «Di Maio ha fatto bene». I panni vanno lavati in famiglia, solo dopo che si sarà chiusa la disfida con il Pd.

Esattamente per motivi speculari e opposti al Nazareno non capiscono fino in fondo come ragionano i «barbari». Ieri un cronista di lungo corso come Augusto Minzolini spiegava che il veto a Di Maio in questa logica è errore da penna blu per chiunque abbia seguito un corso di «togliattismo per principianti». E aggiungeva: «Ovvio che se ti devi allenare con una forza divisa devi includere chi è più lontano, non chi è più vicino a te».

Quindi se seguite il decorso della giornata politica alla luce di questa dinamica, non potete accontentarvi dei rispettivi e festanti bollettini di guerra dei due alleati. Quello del Pd, che esulta, perché dice che «sono state accolte gran parte delle proposte del Partito democratico, a partire dal taglio del cuneo fiscale a favore dei lavoratori, una nuova legge sull’immigrazione, il blocco dell’aumento dell’Iva e lo sblocco delle infrastrutture».

E la grancassa stellata, che gioisce per l’accoglimento dei punti che riportavo in apertura dell’articolo. Tuttavia il punto è che in questa trattativa per la prima volta si prende atto che i soci costituenti non sono tre (Pd-M5s-Leu) ma – di fatto – quattro. Perché al tavolo c’è un altro convitato, un partito istituzionale che esisteva già nel passato governo in forma gassosa, ma che adesso ha preso corpo intorno a Conte e a Mattarella.

Era il partito dei Tria, e dei Moavero, degli «istituzionali» (ma in parte anche di Costa e della Trenta, che formalmente è una militante del Movimento) che hanno convissuto con i sovranisti per 14 mesi. Per esempio: se il Colle dice che Salvatore Rossi è un nome di livello di area dem per l’economia, subito i capi corrente – terrorizzati dall’idea di perdere uno strapuntino nel gioco della sedia – si precipitano da Zingaretti a dire che invece «è un tecnico».

E il complicato gioco dell’alternanza uomo-donna fa si che si parli di ministeri anche per l’ex capogruppo Marina Sereni, esponente del gentil sesso di area dem. Mattarella vorrebbe blindare Esteri, Difesa ed Economia con nomi di prestigio che non hanno il bollino delle correnti. E Conte asseconda questo disegno. Ma in queste ore ogni «istituzionale» in più (da Carlo Cottarelli a Raffaele Cantone) toglie un posto ad un grillino o a un dirigente di rango del Pd. E crea un cordone di sicurezza intorno a Conte. Che per gli strani paradosso della politica, fino a ieri era nodo del contendere del passato, e oggi diventa potenziale leader del futuro.


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