Di Luca Telese
INTRODUZIONE
Questo libro è nato In un giorno del 2022, in una casa del popolo e del pecorino, costruita ai Castelli di Roma da un gruppo di pastori sardi – quasi tutti comunisti – migranti economici trapiantati nel Lazio dei primi anni sessanta.
Lo so, a prima vista può sembrare un immaginifico titolo del Cuore di Michele Serra, o uno dei racconti postmoderni e fantastici di Stefano Benni, ma è tutto vero: quei pastori erano stati “invitati” dai proprietari di terre e dagli allevatori del Lazio, a lasciare le loro case e a trasferirsi a Campoleone, per fare il pecorino romano negli anni sessanta: sbarcati in un nuovo mondo, come “emigranti del formaggio”. E lí sono rimasti. I segni potenti del secolo del lavoro sono ancora incisi nelle rughe e nelle cicatrici del nostro paesaggio, e sono ancora oggi la carta di identità della sinistra. I leoni che sono stati scalpellinati dai ponti di Venezia, per ordine di Napoleone, hanno lasciato un foro abraso nei marmi. E i fasci littori che sono stati sradicati dai muri nel 1945, riescono ancora a proiettare la loro ombra sui muri e sulla politica di questo complicato inizio di secolo. In un gioco di ombre discronico, la vittoria degli eredi del MSI, ha fatto ridiventare vicino tutto quello che sembrava lontano. I cento anni trascorsi dal delitto di Giacomo Matteotti, sono diventati molto più vicini a noi dell’anniversario dei cinquanta.
Oggi quella casa del popolo di Campoleone é ancora è un centro sociale culturale vivacissimo. Aveva fatto in tempo a diventare la seconda casa di Dante Franceschini, ex partigiano, decano della scorta di Enrico. Grazie a lui (che mi ci aveva portato) l’avevo scoperta nel 2006: la casa del popolo di Campoleone e la sua comunità hanno seguito tutte le complicate svolte della sinistra italiana nel corso degli anni, hanno ospitato generazioni di figli e (oggi) di nipoti, ma dopo mezzo secolo è ancora in piedi: uno dei tanti gangli di un ricchissimo e variegato tessuto di associazioni democratiche che in questo paese è sopravvissuto a qualsiasi tempesta. Ne conosco tanti di luoghi così, e ognuno ha sua storia: la casa del Popolo di Asti, guidata da un pugno di giovani e indomabili ragazze trentenni, il “Fuori Orario” di Taneto di Gattatico, il Costarena di Bologna, i circoli Anpi accesi come lampadine nel buio (un esempio su tutti: quello di Mirandola), nei tanti comuni rossi che in questi anni sono caduti in mano al centrodestra, come birilli.
Ho fatto questi nomi per citare degli esempi diversissimi e vincenti. C’è ancora vita, su Marte, ma rigorosamente fuori dai partiti: bisognerebbe iniziare a chiedersi perché.
Mi trovavo proprio a Campoleone, dunque – nel maggio del 2022 – per presentare il libro dedicato agli uomini di Berlinguer e al loro leader: in mezzo a centinaia di persone, mi ero subito reso conto che (più che una presentazione) quella giornata era diventata un happening, che culminava in un pranzo pantagruelico. Erano quasi le tre del pomeriggio ed eravamo ancora a tavola, quando mi si era avvicinata una donna, molto simpatica, che non conoscevo. Mi dice: “Luca, devi venire con me a Lanuvio, devo assolutamente farti vedere una cosa unica”. Chiedo: “Così mi fai morire di curiosità: di che si tratta?”. E lei, (che si chiama Sabrina), ridendo: “Voglio farti scoprire una finta locomotiva. Ho anche giornali, foto, una montagna di documenti. Resterai stupito, è un altro capitolo di questa storia”. Non c’era frase che potesse intrigarmi di più, ma quel giorno dovevo tornare a Roma da mio figlio, avevo promesso. Così avevo chiesto a Sabrina: “Ma non possiamo fare un’altra volta?”. Lei ridendo mi aveva dispensato: “Si può, certo, ma non ti dimenticare: resterai sorpreso”. Ero sempre più curioso: ma perché “finta”?”. E lei: “Ehhhh…. Perché lo era. Una finta locomotiva che mio padre Rolando, ferroviere, costruì con placche e lamiere di acciaio, insieme a mio zio e ai suoi compagni per la manifestazione voluta da Berlinguer contro il taglio della scala mobile del 1984”. L’enorme scheletro di acciaio pesava una tonnellata. “Dopo il corteo – proseguiva Sabrina – l’avevano conservata in un capannone in mezzo ai campi dicendo: ‘Servirà ancora’. Erano comunisti, parsimoniosi e previdenti”.
Purtroppo per liberare il capannone, la locomotiva camouflage, meraviglioso simbolo materico del Novecento comunista (ora starebbe benissimo in un museo e diventerebbe una installazione d’arte) era stata smontata e smantellata: bisognava liberare spazio, e io non ho fatto in tempo a toccarla. Quando nel 2024 sono tornato da Stefania e da sua sorella Sabrina, a Lanuvio, recuperando lo splendido racconto che troverete in queste pagine, ero già convinto che, nel tempo in cui viviamo, la storia di quell’ultima battaglia di Berlinguer (e della sua scorta), l’almanacco dei tanti simboli e dei mille personaggi che l’hanno popolata (e che qui ho raccolto), potessero rappresentare una lezione utile per la stagione che stiamo vivendo, dopo la vittoria della destra nelle politiche del 2022.
Avevo scritto La scorta di Enrico immaginandolo come un libro di storia: ma appena arrivato in libreria, pur partendo dal passato, questo racconto é entrato in cortocircuito con il presente: era diventato “attuale” senza che io lo avessi previsto. Invece, mentre andavo a caccia di storie, di archivi e di vecchi giornali, seguendo le tappe sul binario invisibile che la locomotiva mi aveva indicato, prendevano forma un titolo (e un nuovo libro, questo) che era esattamente rovesciato rispetto a quello: l’ultima battaglia (dimenticata) di Berlinguer oggi diventa, senza aggiungere nulla, un manuale pronto per l’uso, che stavolta parte dall’urgenza del presente per riportarci con occhi nuovi nel cuore turbinante del passato.
Ma perché era stata “dimenticata”, quella lotta contro il Decreto di San Valentino che tagliava la scala mobile? Risposta semplice e dritta: perché era “scomoda”. Esattamente come oggi è “scomoda”, e per nulla facile, la resistenza dell’opposizione alla destra che governa. E poi quella battaglia del 1984, coronata da una vittoria imprevista, é più complicata da raccontare, perché – come vedremo – era condotta da Berlinguer su tre diversi fronti. All’esterno, contro il pentapartito (il “centrodestra” di allora). Ma poi, nei confini della sinistra, era diventata una guerra contro Bettino Craxi (il fratello-coltello, il “giocatore di poker”). Infine, persino nel PCI, quella campagna aveva prodotto uno scontro con l’opposizione interna (i cosiddetti “miglioristi” e i tanti prestigiosi alleati che si unirono a loro). Quello che si era manifestato nel PCI, comunque la si pensi, era un conflitto drammatico e alto, fra posizioni che erano entrambe prodotte da convinzioni radicate (anche se opposte): quel conflitto nasceva da visioni inconciliabili, come vedremo, ma che erano figlie di grandi storie e di grandi passioni civili. Quelle di oggi, nel tempo dei nani, dei generali e degli influencer, sembrano una rappresentazione della massima secondo cui “la storia si ripete sempre due volte – come diceva il vecchio Karl Marx – e la seconda volta sempre in forma di farsa”.
Mentre il libro prendeva forma nella mia testa, il mondo che abbiamo intorno a noi ha iniziato a turbinare sempre vorticosamente, regalandoci un incredibile ricorso storico, un allineamento di pianeti e di analogie più raro di una eclissi. l punto che, solo la sua morte, mai Berlinguer è stato più stille di oggi. Quello del 1984, per lui, era un mondo feroce e sull’orlo della guerra, (quello di oggi è uguale). Quello di Berlinguer era un mondo sul filo dell’escaltion nucleare (quello di oggi anche).
Berlinguer intuisce prima di tutti la fine dell’Urss e il rischio che si produca un equilibrio unipolare, dominato da un gendarme feroce e capriccioso, con interi continenti avvelenati da tanti sanguinosi conflitti periferici: e anche quello di oggi è un mondo unipolare, dominato da un gendarme feroce d capriccioso, con interi continenti avvelenati da tanti sanguinosi conflitti periferici.
Berlinguer capisce che il patto fondativo della Repubblica è sotto minaccia, perché alla “Questione morale si sta affiancando una nuova “Questione sociale”. A pagare il prezzo della crisi sono i più deboli.
E – é utile dirlo in maniera chiara – anche oggi la legge fondato a della Repubblica è sotto minaccia, perché alla “Questione morale si affianca di nuovo “la Questione sociale”. Anche oggi pagano i più deboli. Nel 1984 la sinistra era divisa, e zavorrata dai conservatori che continuavano a guardare la realtà con gli occhi di ieri (dunque senza capirla). E anche oggi la sinistra é divisa, e zavorrata dai conservatori che continuano a guardare la realtà con gli occhi di ieri (dunque, ancora una volta, senza capirla). Così, assediato in questi confini, Berlinguer immagina un referendum-simbolo sul lavoro, quello sulla scala mobile, ed è costretto a battersi per imporlo persino nel Pci, perché il suo partito è diviso sulla scelta di raccogliere le firme e combattere. E – incredibilmente, anche oggi in campo c’è un referendum sociale-simbolo sul lavoro (quello pensato da Marizio Landini contro la precarietà) e anche oggi il principale partito di opposizione é diviso sulla scelta di raccogliere le firme e di combattere. La sinistra è avvelenata da una classe dirigente invertebrata e pavida, che ha la pretesa di vincere a costo zero.
Ed ecco perché il racconto di questa complessità – oggi come ieri – ci aiuta: la storia non è una partita di scacchi tra angeli e demoni, non segue una sceneggiatura lineare, non ci regala mai un tranquillizzante e intellegibile gioco di buoni contro cattivi: non è mai uno stereotipo che ci consola con delle risposte facili.
Piuttosto, oggi come allora, quando il cambiamento irrompe sulla scena, fa invecchiare le idee alla velocità della luce: Berlinguer aveva capito prima di tutti che il patto di Yalta era finito, che il Secolo breve stava cambiando il mondo e lo aveva spiegato (come ricorderò tra breve parola per parola), in una profetica a Fermando Adornato su George Orwell, nell’anniversario del suo capolavoro. In quegli anni si sparava contro i civili palestinesi (e oggi si spara ancora e sempre contro i civili palestinesi). In quegli anni c’era la crisi energetica (e anche oggi c’è la crisi energetica). C’era l’inflazione (e c’è l’inflazione). C’era il nuovo e decadente Imperialismo, fondato sull’illusione di egemonia degli eserciti, sia per i russi che per gli americani (allora in Afghanistan e in America Latina). Ma anche oggi c’è un nuovo e crepuscolare imperialismo fondato sull’illusione di egemonia degli eserciti, sia per i russi che per gli americani (stavolta in Ucraina e in Medio Oriente).
Il fatto nuovo politico degli anni ottanta erano i governi dei populisti turbo-liberisti di fine Novecento (Reagan e la Thatcher). E anche oggi il fatto nuovo sono i governi dei nuovi populisti turboliberisti di inizio terzo millennio (Trump, Bolsonaro, Orban, o chi volete voi).
Dall’opposizione, dove sceglie volontariamente di collocarsi (perché non gli interessa gestire il potere per il potere), e con la scorta – che lo accompagnerà ovunque – Berlinguer si mette ancora una volta in viaggio, alla ricerca di un nuovo radicamento sociale. Ha alle spalle l’enorme forza del popolo della sinistra, che ha riattivato, e che lo sorregge nel momento più duro. Ma deve misurarsi con una resistenza interna nel gruppo dirigente, che deflagrerà (come scoprirete presto) in una ultima e drammatica direzione del PCI, poco prima della sua morte. In quella stanza di Botteghe Oscure si combatte (solo tre giorni prima dell’ictus che colpirà il leader comunista) fino all’ultimo sangue. E davanti il segretario, nell’ora più dura, si salda un asse che va da Napolitano a Lama, da Pajetta alla Iotti.
Tuttavia Berlinguer, in quella che purtroppo sarà la sua ultima stagione politica, ha fatto in tempo a fare riflessioni importanti sui nuovi “pensieri lunghi” che secondo lui possono guidare il cammino della sinistra nella tempesta. Riflette sulla nuova disuguaglianza di genere (e quindi sul terremoto che produce nella società, anche in casa “sua”). Lavora sull’idea della pace come valore assoluto e sulla lotta contro vecchie e nuove armi di sterminio come imperativo (creando dissensi e perplessità sia fra i militaristi filosovietici che tra i militaristi socialdemocratici). Preme per adottare forme di lotta radicale, dalla mobilitazione nelle piazze all’ostruzionismo in parlamento (che secondo i suoi critici – vi ricorda qualcosa? – spaventerebbero i presunti “moderati”). Quel Berlinguer é ossessionato dal tema della sostenibilità ambientale e rompe con la tradizione industrialista del suo stesso partito (quando era ancora alle medie, non Greta Thumberg, ma sua mamma Malena, che all’epoca aveva dieci anni). Persino la prima, importantissima legge dell’antimafia nasce in questa stagione da Pio La Torre, che per anni è il più stesso collaboratore di Berlinguer, un suo amico personale, l’uomo che poi diventerà una vittima di Cosa Nostra.
Nella scorta di Enrico c’erano tre diverse generazioni di militanti, che rappresentano anche tre diverse generazioni di italiani. Erano otto e venivano tutti dal popolo. Nella stagione degli anni di piombo – dunque, il popolo e le élites viaggiavano entrambi nella stessa macchina, imparando gli uni dagli altri. Oggi non sono più tra di noi Lauro e Dante, i più anziani, (che erano stati partigiani), così come ci hanno lasciato il fondatore del gruppo, Alberto, l’uomo che era andato a bussare alla porta di Enrico nel 1969, e che sarebbe diventato il fondatore del gruppo. Non c’è più Pietro Alessandrelli, il figlio delle periferie romane. Non c’è più Alberto Marani, il ragazzo della “Generazione Vietnam”, stroncato prematuramente da un brutto tumore. Avevo scritto La scorta con un obiettivo dichiarato, mettere in sicurezza la memoria di quella storia che affondava le sue radici nella lotta contro il nazifascismo, nella stagione del partito nuovo, e nella grande ascesa degli anni settanta. Dopo un lunghissimo viaggio in giro per l’Italia, fatto di memoria, passione e dibattiti filo a notte fonda, ho sentito la necessità di consegnare agli atti anche questo ultimo racconto, così attuale e drammatico.
In ognuno di questi capitoli, a ben vedere, si può rintracciare il bandolo di una morale utile, uno strumento di cui la sinistra di oggi ha un grande bisogno. Anche perché io non ho il minimo dubbio che se Giorgia Meloni riesce a vincere le prossime politiche, diventando la prima leader a farlo due volte di seguito, governerà per venti anni.
Leggendo questo libro che avete tra le mani, dovrebbe diventare chiaro – storia per storia e capitolo per capitolo – che non puoi immaginare un governo alternativo se non fai l’opposizione, ma non puoi fare opposizione se non abbandoni tutte le rendite tattiche. Allo stesso tempo non puoi cambiare l’Italia se non alzi il tuo sguardo sull’orizzonte del mondo, e nessuno puó vincere, oggi come allora, senza un leader che abbia un respiro internazionale (Berlinguer oggi non è un politico italiano, è una figura, come dimostra il capitolo su Lula, studiata in tutto mondo). Ma, soprattutto: dovrebbe apparire chiaro anche che non si può essere leader se non si rischia e non si osa, se non si mette in gioco la passione ed il corpo, se non si fanno nuove sintesi, e se non si produce innovazione. La Meloni, quando parla al popolo della destra lo fa. Ma chi sta parlando al popolo della sinistra del suo futuro, oggi?
C’è una frase molto bella, di Enrico Berlinguer, che è stata la mia bussola in questo viaggio; “Io sono comunista. Da giovane ho fatto una scelta di vita: stare dalla parte dei più deboli, degli sfruttati, dei diseredati, degli emarginati. E lo farò – concludeva – fino alla fine della mia vita”. Per lungo tempo mi sono arrovellato su queste parole, ho pensato e ripensato alla complessità di questa partizione quadrupla: deboli, sfruttati, diseredati, emarginati. Sia che fosse al governo, sia che fosse all’opposizione, Berlinguer aveva ben chiaro davanti agli occhi quello che considerava il suo popolo, ed era come se volesse battezzarlo, nome per nome, anima per anima, perché nessuno si sentisse escluso. Perché “i deboli” non sono la stessa cosa degli “sfruttati”, e i “diseredati” non sono la stessa cosa degli “emarginati” (e viceversa). Oggi vorrei aggiungere: nessuna di queste categorie abita dentro i confini simbolici e angusti dello Ztl, ovvero dello spazio metafisico dove quasi tutte le sinistre socialiste di questo secolo pallido, trattengono con unghie e denti, i loro rarefatti consensi. Non c’è un’altra strada, dunque. Devi caricarti sulle spalle tutte le passioni del mondo, devi nominarle e saperle raccontare per nome e cognome, devi eleggere gli ultimi come tuo popolo, anche solo per poter parlare ai primi. È una lezione che io ho imparato (come penso apparirà chiaro negli ultimi capitoli) andando a scansionare con la carta millimetrata quel l’enorme popolo, che si manifestò a Piazza San Giovanni il 13 giugno del 1984. Un milione di persone, il popolo di Enrico. Molto di loro oggi non ci sono più. Ma conoscenza quella piazza è la premessa per organizzare “il congresso di Futurologia” che Berlinguer aveva desiderato e inseguito in tutto il suo ultimo anno di vita. Perché senza memoria non c’è futuro. E il futuro di chi vince ha sempre radici antiche.
Rispondi