Appena ho saputo della scomparsa di Giorgio Poidomani – oggi – ho provato un grande dolore, ho sentito il dovere di raccontare quest’uomo che pochi conoscono, e mi é venuto in mente un flashback.
Un giorno, nell’estate del 2009, in aeroporto a Fiumicino, avevo incontrato per puro caso Marco Travaglio. Eravamo su un bus navetta, diretti per combinazione verso lo stesso aereo e lui a bruciapelo mi disse: «Se provassimo a fondare un quotidiano – aveva detto Marco – tu ci staresti? Pensiamo di partire con pochi soldi, dieci redattori e due inviati. Bisogna licenziarci dai rispettivi giornali e rischiare. Io e Padellaro lo faremo, Antonio sarà il direttore». Ero stupito: «Fondare un quotidiano in dieci»? E lui: «Sì, di sedici o venti pagine». La hostess cominciava a fare gesti minacciosi per invitarci a prendere posto e dunque a separarci: «Ma è impossibile, Marco!» E lui: «Secondo Poidomani no. Ha fatto tutti i conti, fino all’ultima lira: Antonio si fida ciecamente». Conoscevo Giorgio, per averne scritto in una vita precedente, la su fama di integerrimo e mitico conoscitore di bilanci, e il mio primo pensiero fu: “Se lui pensa che sia possibile, si può fare di sicuro”. Oggi, quando mi é arrivata la notizia che Giorgio Poidomani è morto, ho pensato: abbiamo perso non solo l’uomo che nel 2009 inventò il rivoluzionario modello giornalistico del Fatto Quotidiano. Abbiamo perso uno Steve Jobs dell’editoria. Giorgio non era noto al grande pubblico, ma a tutti gli addetti ai lavori. Il suo format ha ispirato persino la Verità di Maurizio Belpietro (ovvero gli unici due giornali senza editore mai nati in Italia).
Aveva imparato -da amministratore delegato de l’Unità – tutto quello che non bisogna fare (e che ovviamente si faceva) nei quotidiani italiani per non andare a picco. Non ha inventato solo il format per un giornale, diarie, ma un canone: se esisterà ancora la carta stampata in questo paese, nel prossimo quarto di secolo, sarà per via delle sue intuizioni su tirature, chiusure, numero di redattori.
Ed ecco l’uomo. Poidomani era alto, elegante, ricco (dopo una lunga carriera da management di successo) colto, ironico, e aveva alle spalle una biografia di proporzioni enciclopediche e di sapore romanzesco, una corona di capelli bianchi intorno a una calvizie socratica. Ex giocatore della nazionale italiana di rugby a vent’anni; poi, a trenta, dirigente di azienda con stipendio da top manager in Francia. Quindi – a Parigi, nel momento giusto – era stato travolto dal Sessantotto, che raccontava con pennellate asciutte e straordinarie, fino all’aneddoto sul giorno in cui aveva preso la parola in un’assemblea alla Sorbona occupata per dire che portava la sua solidarietà al movimento. Lui dirigente di azienda di successo, d’accordo con gli occupanti. “Ovviamente stato stato sommerso dai fischi!”. Rideva lui stesso, raccontandolo, un po’ divertito, ma anche un po’ ancora turbato: “Se non me ne fossi andato rischiavo”. Nei primi anni settanta era stato manager e amministratore delegato di alcune delle più grandi società italiane, dall’immobiliare Sogene fino ad arrivare alla guida del polo della chimica con Nino Rovelli e la SIR (dirigente occulto del Cagliari pre-scudetto). Ma Poidomani era anche un intellettuale raffinato, capace persino di ricoprire piccoli ruoli nel cinema, come quando aveva recitato per il suo carissimo amico Citto Maselli in un film come “Le ombre rosse”.
La prima volta che lo avevo incontrato aveva già i capelli bianchi da un pezzo: stava per compiere settantacinque anni, sembrava aver visto tutto e fatto tutto. Sempre in quel turbinoso 2009, nello scompartimento di un Eurostar treno veloce, con una matita in mano aveva iniziato a mostrarmi, numeri alla mano, come avrebbe potuto stare in piedi il primo quotidiano senza finanziatori alle spalle. Si era presentato pochi attimi prima così: “Buongiorno Luca, forse tu. Non ti ricordi di me: sono Giorgio Poidomani, e sto per querelarti”. Subito dopo aveva intavolato una discussione che sapeva di trattativa. Sosteneva che avrebbe potuto ritirare questa ipotetica causa contro di me solo se fossi andato a lavorare a il Fatto: “Alle condizioni economiche che dirò io”. Il motivo della querela era averlo citato come “L’amministratore delegato dell’Unita di Soru” in un articolo sul Giornale. E subito dopo aveva aggiunto:
- “L’Unità – quella vera – l’ha fondata Antonio Gramsci e l’abbiamo chiusa Antonio e io. Il resto sono cloni”. Sapeva che non era vero, ma era il suo modo di chiudere i conti con Soru. Su quel treno Roma-Milano la matita di Poidomani aveva disegnato un arabesco di numeri sulla carta che dimostravano cosa aveva imparato e cosa aveva in mente. Se il Fatto era nato davvero, era perché le sue intuizioni sembravano banali e invece erano non convenzionali, l’unico modo per abbattere costi e debiti. Giorgio mi avrebbe raccontato, molto tempo dopo, che quel progetto aveva preso corpo nella sua testa «grazie a una sofferenza lunga nove anni». Quale? “Quella – spiegava con grande teatralità – che provavo ogni giorno, quando a l’Unità, minuto per minuto, verificavo che il meccanismo dello spreco era impossibile da riformare in una struttura già avviata».
Anche qui bisogna fare un po’ di storia. Nel luglio del 2008 Padellaro, che era ancora alla guida del quotidiano del PD, aveva capito che con l’arrivo di Concita De Gregorio alla direzione per lui non ci sarebbe più stato spazio. La sua sostituzione era stata annunciata nel peggiore dei modi, con una anticipazione traumatica, da una intervista di Walter Veltroni ad Aldo Cazzullo pubblicata sul Corriere della Sera del 28 maggio 2008. In quella pagina l’allora segretario del PD diceva, proprio alla fine, in un inciso che poteva sembrare buttato li per caso (e che invece non lo era affatto): «Mi piacerebbe portare avanti la rivoluzione che abbiamo avviato portando, dopo le molte donne che abbiamo fatto eleggere in Parlamento, una donna alla direzione de l’Unità». Più che un identikit di un nuovo direttore, era un avviso di garanzia per Padellaro. Così a settembre Antonio aveva contrattato la sua liquidazione e aveva lasciato il quotidiano. Soru lo aveva trattato anche molto bruscamente. Un altro si sarebbe depresso, lui già pensava a fondare un nuovo giornale. Il giorno in cui stava andando via aveva chiesto a Poidomani, che ancora lavorava a l’Unità: «Pensi che si possa fare un piccolo quotidiano con costi ridotti?» L’amministratore aveva strappato un foglietto a quadretti da un block-notes, aveva buttato giù su quel pezzo di carta i cinque punti del suo piano (li riporto più avanti) e gli aveva detto: «A queste condizioni, si». Ma lì si era dovuto anche fermare, perché aveva l’obbligo di essere leale con il suo datore di lavoro dell’epoca (era ancora Soru).
La vecchia Unità perdeva sei milioni di euro l’anno, era stata rilanciata dal fondatore di Tiscali con la direzione di Concita, proprio mentre il sito dell’Antefatto annunciava la lasciata del nuovo quotidiano.
Il giornale avrebbe rinunciato al finanziamento pubblico. A dicembre del 2008 Poidomani si sarebbe dimesso, dopo aver capito per via di uno sgarbo che Soru non lo voleva più. Se ne era accorto durante un viaggio in Sardegna, a Ghilarza, dove doveva presentare un libro preparato per il giornale con il figlio di Antonio Gramsci. Da tempo c’erano piccole frizioni tra lui e il suo editore, e Soru gli aveva promesso che ne avrebbero parlato a margine della cerimonia. Poidomani ne era contento.
Quando il dibattito era iniziato Soru non era ancora arrivato, ma un assessore della sua giunta avvertì Giorgio con grande ottimismo: «Sta per arrivare». Subito dopo l’incontro, con grande imbarazzo, il collaboratore di Soru gli aveva trasmesso però un contrordine poco credibile: «Non ce l’ha fatta a venire..» Giorgio aveva capito che era il congedo di un uomo che per carattere faticava a comunicare in maniera diretta le decisioni spiacevoli, e rassegnò immediatamente il mandato. Anche questa è una sliding door interessante: ironia della sorte vuole che se Poidomani non si fosse dimesso allora, il Fatto non sarebbe mai nato. Ricordo che ad Alghero, sette mesi dopo l’uscita del quotidiano, avevo incontrato un Renato Soru arrabbiatissimo che mi aveva gridato: “Per colpa vostra abbiamo perso diecimila copie: mi avete rovinato!”.
Era vero. Il fatto portó alla chiusura quella Unità. Ad agosto già si lavorava ai numeri zero, il 23 settembre del 2008 il giornale uscì: al momento dell’uscita, oltre a Padellaro e a Furio Colombo i redattori assunti erano sei, “le firme” che si erano licenziate erano quattro (tra cui Marco Lillo, Peter Gomez, Travaglio, il sottoscritto) e Carlo Freccero venne a fare da padrino con uno scoppiettante discorso che finì con ululati: “Siete una sporca dozzina!!”. Cult.
Il brand distintivo del Fatto Quotidiano, ciò che lo doveva rendere diverso dagli altri e quindi appetibile per il mercato, era l’assoluta libertà e indipendenza. Per questo motivo era indispensabile non avere azionisti di controllo, in modo tale da tutelare più di ogni altra cosa la libertà editoriale. Cosi Poidomani aveva stilato uno statuto ad hoc, che prevedesse due tipi di azionisti: gli imprenditori tradizionali e i giornalisti. Gli unici altri padroni del giornale erano gli abbonati. Giorgio aveva uno straordinario senso dell’ironia cattivista. Un giorno ripeteva in redazione: “Con diecimila lettori e zero abbonati, il venduto totale è diecimila, il giornale vive. Con cinquemila lettori e cinquemila abbonati, la somma é diecimila, il giornale vive! Con settemila abbonati e tremila lettori il giornale fatica, ma la somma è sempre dieci, il giornale vive!”. Ricordo che qualcuno – forse – Silvia Truzzi – disse: “Ma se fossero cinque e tre?”. Giorgio allargó le mani e disse: “Ma quante volte ve lo devo ripetere? I giornalisti non hanno mai studiato la matematica??? Con cinque e e tre la somma è otto, il giornale chiude!!!”.
Lo statuto Poidomani prevedeva che i giornalisti fossero coinvolti in tutte le scelte relative alla linea editoriale, compresa la nomina del direttore. Tutte le scelte decisive andavano assunte con una maggioranza qualificata, che comprendeva sempre i giornalisti (e questo ha influenzato molte scelte de Il Fatto, negli anni).
Ma la vera innovazione era quella economica: il piano Poidomani, a rileggerlo oggi, era molto semplice. Come tutte le idee geniali, in fondo, è un autentico uovo di Colombo. I suoi capisaldi sono questi:
- I quotidiani normali buttano centinaia di migliaia di euro per ritardi nelle chiusure. Un giornale che non vuole andare in deficit deve chiudere sempre non oltre le 21.30 (che poi divennero 22.00 per un incastro nella tipografia con la Stampa, che veniva stampato dopo, in nome del punto due).
- I quotidiani normali spendono milioni di euro in tipografia, un giornale che non vuole andare in deficit stampa nei tempi morti delle tirature altrui e per questo deve chiudere presto.
- I quotidiani normali versano cifre folli per andare in tutte le edicole: Il fatto – soprattutto all’inizio – sarebbe andato solo nel 50 per cento delle edicole (con l’80% dei lettori). Si cresceva solo se si vendeva.
- I quotidiani normali spendono molti soldi per lo straordinario domenicale, il Fatto avrebbe contenuto i costi de lavoro straordinario domenicale non uscendo il lunedì (poi il giornale andò così bene che andò sette su sette).
- I quotidiani normali hanno un numero di rese alte, il fatto non andrà mai oltre il 50 per cento, a costo di tagliare la tiratura se fossero calate le vendite.
- I quotidiani normali hanno costi di personale amministrativo molto alti, il fatto avrebbe avuto un solo dirigente e una sola segretaria.
Molte cose cambiarono, dopo, ma il dopo ci fu, perché Giorgio fissò queste regole per il “prima”. Anche Maurizio Belpietro ha potuto trasformare la sua Verità in un quotidiano nazionale perché ha mosso i primi passi con grande prudenza. La prima sede de il Fatto era un call Center. La prima sede della verità un appartamentino vicino alla stazione dove per motivi di spazio la segreteria di redazione era alloggiata in cucina.
A proposito di modelli previsionali. Ricordo che alla vigilia del primo numero de Il Fatto, per ipotizzare la tiratura, Poidomani e il direttore amministrativo Panetta avevano costruito una media ponderata su quanto vendeva in ogni edicola la somma algebrica dei quotidiani di sinistra. Si sarebbe rivelato un errore, ma non per colpa loro: perché il giornale sarebbe esploso in posti impensabili, per esempio i quartieri romani «di destra», come l’Eur o il Torrino.
C’era un pubblico già pronto, là fuori, e in mezzo a questo pubblico c’erano anche (immagino ora) quelli che sarebbero diventati gli elettori di Gianfranco Fini dopo il suo strappo con Berlusconi. Ricordo che chiudendo (solo in undici, e con una fatica enorme) il primo numero pensai, con lucida spietatezza: Come potremo riuscirci di nuovo?
Ma che notte fu, quella notte del 23 settembre! C’era emozione in redazione, attesa, adrenalina che correva in vena a velocità di ottovolante. Chiuse le pagine, eravamo rimasti per aspettare le copie staffetta che il prode Panetta era andato a prendere in tipografia. E il refuso? E come diavolo scrive «Afghanistan» Massimo Fini? (senza l’acca, scoprivamo). E il mitico Fabio Sacerdoti, l’abbonato numero uno del giornale? Facciamoci una rubrica, dai, «l’abbonato del giorno». E quel cavolo di occhiello nero in seconda, quanto doveva essere lungo? Il numero verde anti-immigrati doveva andare sopra o sotto il pezzo di Caselli sull’egiziano di Torino? E le lettere? Ma quante ne erano arrivate?
Stajano quanto aveva scritto? Era arrivato il salame per il buffet di attesa delle copie staffetta?
C’è una foto compromettente di Travaglio con la mortadella inforchettata scattata quel giorno, ma qualcuno deve averla fatta sparire. Dopo la chiusura fu un baccanale. L’avreste mai detto che Padellaro è il tipo che si mette a fare i gavettoni? Ecco, i redattori de il Fatto no, e si ritrovarono “fracichi” con lui – solitamente uomo di aplomb – che sorrideva. In ogni caso il filmino commemorativo di quella notte non c’è.
A proposito. C’era anche Antonio Gramsci, quella sera. Il famoso nipote (portato da Poidomani). Alessandro Ferrucci (il mio vicino di banco) cazzeggiava dicendo: “Ho dato il massimo, ora me ne voglio andare” (è ancora lì, a fare interviste fiche). Il caporedattore Enzo Ciconte, calabrese, ex corrisponde de l’Unita da Cuba, sospirava girando per la stanza e ripetendo: «Non va bene! non va bene! Qui è un gran casino!» Beatrice Borromeo – praticante – aveva tirato fuori dal cilindro una foto di immigrati quando (pare pazzesco) non riuscivamo a trovarla. La vignetta dell’illustratore Manolo Fucecchi era meravigliosa, così come il titolo di prima che nessuno di noi avrebbe più dimenticato: «Indagato Letta». L’emozione più grande arrivò a notte fonda, quando vedemmo il sito popolarsi dei messaggi di quelli che avevano letto il quotidiano online a mezzanotte, e subito dopo, inseguendo a ritroso il fuso in giro per il mondo, quando iniziarono a scrivere dal Canada, dall’Africa, dall’Asia, da tutto il mondo. Era successo qualcosa di irripetibile. Ci accorgemmo solo in quel momento di essere davvero al centro di una grande comunità, solo in quel momento capimmo che le poche parole di urgenza che ci eravamo scambiati nella saletta della Campana, avevano unito un piccolo-grande popolo.
Nell’ufficio di Giorgio Poidomani fu decisa di prima mattina una ristampa, perché il distributore chiamava di continuo . Alla fine furono vendute – pare – 160mila copie del primo numero.
Passo un anno. Esattamente dodici mesi dopo, per il compleanno del quotidiano – dopo Freccerò tornò lì in redazione dicendo: “Siete poveri ma belli”. Poidomani, con il solito tono burbero si arrabbiò: “Ennó Carlo! II Fatto nel 2010 distribuisce tre milioni di euro di dividendi (con un risultato prima delle imposte paria 8,8 milioni), è arrivato a trentadue persone assunte, ha concesso ai suoi redattori un premio di produzione di ottomila euro. Mentre quasi tutti gli altri giornali hanno un segno meno nei loro fatturati. Poidomani mi tendeva un foglietto fitto di dati: «La vedi la media, Luca? Siamo a settantanovemila copie, più 18 per cento! È pazzesco».
Così, dopo che avermi illustrato il bilancio preventivo dell’anno successivo con lo stesso afflato con cui Italo Calvino parlava dell’Ariosto, avevo chiesto chiedo a Giorgio che cosa provasse a essere l’uomo che ha reso tutto possibile, quella particolare categoria di rivoluzionario che nella storia fa quadrare i conti tra le utopie impossibili e il fondo cassa. Mi aveva guardato, sorriso, aveva disegnato con le sue dita lunghe e affusolate una figura geometrica nell’aria: «Lo vedi cos’è questa? Io ho fatto solo una cornice, intorno a un quadro che avete dipinto voi. Non sono un architetto, ma solo un artigiano dei numeri». Senza quei numeri, però, nessuno si sarebbe licenziato, nessuno si sarebbe ritrovato a discutere negli ampi saloni di via Valadier (la seconda sede del giornale, dopo il call center dei giorni spartani) con la saletta per lo sudio televisivo e persino l’angolo bar (progettato da Paola, la moglie del direttore).
Guardavo Poidomani, con i suoi capelli bianchi, e il suo eloquio da altri tempi, e mi rendevo conto che sempre – nella storia dell’innovazione – il futuro ha radici antiche. Poidomani sarebbe potuto essere saltato fuori da un dipinto di Eugène Delacroix. L’aria drammatica anche quando sorrideva, la passione civile che nessuno avrebbe potuto immaginare sul volto di un uomo di numeri, il senso del rigore di un risorgimentale sabaudo. Certo, il Fatto non sarebbe nato senza la capacità di costruzione di Padellaro. E non avrebbe potuto prendere quota senza il carisma sciamanico di Marco Travaglio. La Verità non sarebbe potuta nascere senza Maurizio Belpietro e Gianpaolo Pansa e tanti altri. Ma tutti questi carismi non avrebbero potuto manifestarsi senza quel ghirigori nell’ari. Senza quella che Giorgio chiamava: “La cornice”.
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