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Se n’è andato Aldo Tortorella, partigiano, intellettuale, dirigente del PCI, forse il più stretto collaboratore di Enrico Berlinguer.
Questo è un capitolo che scrissi per “Opposizione, l’ultima battaglia di Enrico Berlinguer”. Me lo restituì corretto che il libro era già in stampa, sono contento di poterlo pubblicare ora, qui, per chi lo vuole ricordare con la sua voce.
Quei miei anni con Berlinguer
La cosa curiosa è che io sono stato proposto due volte per coordinare la segreteria di Enrico Berlinguer. La prima volta, diciamo così, fui bocciato. Era il 1980, e il modo in cui il fatto si verificò quasi geniale. Se fossi stato criticato, forse, la proposta non sarebbe passata: invece si alzó Paolo Bufalini, che si produsse in un intervento quasi apologetico nei miei confronti che suonava così: “Aldo Tortorella è uno dei migliori responsabili culturali che il partito abbia mai avuto! Sarebbe un danno drammatico perderlo, non si può distrarlo dal suo lavoro per un altro incarico. Sarebbe grave”. Ero fregato. Calcola che io già in quel ruolo di responsabile cultura da quattro anni, quando raramente si teneva un incarico per più di quattro o cinque. E alla fine, dopo quella discussione rimasi responsabile cultura per otto anni. Tuttavia, spiazzato dall’elogio mi ero rassegnato. Ho avuto molti di riflettere a lungo sullo scontro politico che si verificò nel PCI, fra il 1980 e il 1984, e credo che ci sia una radice culturale più lontana che precede il conflitto tra le personalità complesse ed importanti di Giorgio Napolitano ed Enrico Berlinguer. Bisogna partire addirittura dalla svolta di Salerno. Perché tutti pensano che ci fosse un solo partito comunista, mentre in realtà – prima della fine della guerra – ce ne erano due, con due diversi coordinatori politici, e due distinte strutture organizzative. Uno di questi due partito era già un partito governo, al Sud, addirittura con i monarchici. Mentre l’altro era un partito in guerra, al Nord, con ancora le armi in mano: un partito di fucilandi. Le due anime distinte, e le sue diverse vocazioni, a prescindere dai dati personali, nascono già lì. C’era poi il peso delle biografie e dei caratteri: Emanuele Macaluso, per esempio, era migliorista, ma ho sempre pensato che fosse più di sinistra di me. Viceversa Armando Cosutta veniva considerato un dirigente alla sinistra di Berlinguer, ma io non dimentico che prima del suo strappo filosovietico faceva le riunioni con gli altri nell’uffici di Napolitano.
Quanto al PCI del 1980: dopo che Berlinguer tiene il suo celebre discorso a Vietri sul mare e rompe la maggioranza con la Dc, nella nostra direzione, per la prima volta, io vedo che si manifestano una destra, una sinistra ed un centro. Ed è vero che ci sono già diversi dissensi, sulla rottura del governo. Ma la vera battaglia si accende, nel 1981, dopo il discorso sulla Questione morale. Lui lì vede prima di tutti la degenerazione dei partiti. E chi da una lettura solo politica di quel discorso, invece, lo vede come una rottura “moralistica”, il distacco dall’idea di una sinistra che ha come suo fondamento la politica delle alleanze. Ovvero, gli dicono: ma scusa, la Dc non va bene, i socialisti sono corrotti, ma allora con chi vuoi governare. E invece il discorso di Berlinguer era un discorso molto più alto, di visione, riguardava tutti, e adesso finalmente si è capito. Aveva già intuito, forse prima di tutti, il crollo della Prima Repubblica.
Per questo il suo lavoro di aggiornamento della piattaforma culturale del partito é molto radicale: in soli tre anni introduce il pacifismo, l’ambientalismo, la questione della Differenza femminile, e la battaglia a difesa dei diritti dei lavoratori. Sono temi che ci consentono di rinnovarci, di riattivare entusiasmi sopiti, di mobilitare tantissimi giovani, esponenti della società civile.
Tuttavia quando divento coordinatore della segreteria mi rendo conto che nel gruppo dirigente l’effetto di reazione è devastante. Era solo. Eravamo soli. E certo non mancavano compagni che non abbandonarono Enrico, magari per amicizia o lealtà – penso ad uno come Renato Zangheri – ma la mia sensazione era che nel nucleo storico dei dirigenti del partito il suo isolamento fosse addirittura superiore a quello che si manifestava negli organismi dirigenti. Erano gli sguardi, le battute, le mezze frasi. Io incontravo nei corridoi che mi pregavano: “Aldo, faglielo capire tu ad Enrico, che gli sei vicino…”. E altri che addirittura mi dicevano cose del tipo: “Tu lo difendi. Ma Berlinguer ormai è impazzito”.
Era separazione drastica, quasi inspiegabile rispetto al sentimento della base popolare del partito che in realtà ci appariva entusiasta. In quei lunghi giri elettorali a cui si sottoponeva, anche in modo faticoso, Berlinguer sentiva l’affetto profondo di questo popolo che gli voleva bene, che lo sosteneva. So per certo che per lui questo era una boccata di ossigeno. Di certo nessuno dei dirigenti parlava con lui come faceva con me, ma lui, che conosceva tutti, come le sue tasche, avvertiva diffidenza e freddezza. Attenzione: molti di questi compagni erano in buona fede. Quello sconcerto era il loro convincimento profondo. Pensavano, erano convinti che Berlinguer portasse il partito alla rovina. Scambiavamo quell’entusiasmo per l’eccesso di affetto di qualche sparuto tifoso, pensavano che la linea fosse spostata troppo “a sinistra”. A mio avviso non avevano capito che invece, ciò che sarà chiaro dopo: la figura pubblica di Berlinguer superava le tradizionali categorie destra-sinistra, e aveva stabilito una connessione profonda con pezzi importanti e non prevedibili della società italiana. Io non ebbi bisogno del funerale di piazza San Giovanni per capire quanto era profondo questo radicamento. Loro erano convinti del contrario e rimasero stupefatti il giorno di piazza San Giovanni, e ancora di più della vittoria alle Elezioni europee. Ma il fatto innegabile era che negli ultimi mesi Berlinguer negli organismi dirigenti era in minoranza. Un gruppo di noi vecchi, era con lui, i giovani erano con lui, ma non erano la maggioranza della direzione, come i fatti poi dimostreranno, e forse con lui non c’era neanche una maggioranza nel comitato centrale. Io avvertivo che il rispetto nei sui confronti era ancora grande anche in molti che non condividevano la sua linea. E questo forse complicava le cose.
Ecco, è questo il clima in cui si arriva alla direzione del 5 giugno. C’era in quei giorni di lotta sulla scala mobile una discussione molto seria con Napolitano. Berlinguer voleva che si decidesse di fare il referendum. E quando si arrivò al punto, alla fine della discussione, io capii che eravamo sul filo di un voto, forse due. Dopodiché quell’ultima riunione della Direzione non si chiuse perché Berlinguer disse in sostanza: «Va bene, ho capito, questa discussione deve essere riaperta». Ma attenzione: la frase, che tutti i presenti capirono, voleva dire: «Questo riguarda anche il mio ruolo”. Intendeva dire, insomma, che avrebbe potuto dimettersi. “Adesso andiamo a fare le elezioni – diceva – ne riparleremo dopo». Dopo non se n’è più parlato perché ci fu Padova. È quella direzione l’ultima occasione in cui abbiamo discusso io e lei. Berlinguer era così onesto che se non era così convinto di una cosa non esisteva la possibilità che la facesse. E se aveva una convinzione andava fino in fondo. Ho il rimpianto di non avergli potuto parlare più a lungo, perché quel giorno dovevamo tutti partire. Non ho dunque la certezza, ma una sensazione abbastanza esatta sì, la ho. Quella che lo scontro in direzione, oltre ad averlo fatto arrabbiare, per tutti questi motivi lo avesse profondamente ferito.
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