Luca Telese

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Luca Telese
Luca telese

Giornalista, autore e conduttore televisivo e radiofonico

Una passione in poncho, la lezione di Bergoglio

Purtroppo accade molto spesso. Non abbiamo dimestichezza con la grandezza, quando valutiamo gli uomini e i leader che sono immersi nel proprio tempo, non siamo bravi con le proporzioni: solo la morte ci restituisce le reali dimensioni di ciò che abbiamo davanti agli occhi, e ci pare fino a quel momento normale, e dunque solo la morte ci spiegherà quanto è profonda l’impronta che questo Papa lascia nella storia. Solo la morte, ora ci fa capire fino in fondo quanto è stato grande Francesco. Solo l’assenza ci spiega cosa è stata la sua presenza, solo la terribile rapidità del congedo ci fa vedere il contorno del vuoto che lascia nelle nostre vite. Se ne va un gigante della storia, e si congeda da noi nel più antiretorico dei modi.

Non se ne va distante, protetto dai cerimoniali del commiato, barricato in una stanza chiusa, ma se ne va presente e visibile fino all’ultimo istante nel suo corpo sofferente. Inchiodato fino all’ultimo alla sua sedia a rotelle, affaticato ma non piegato, intento alla sua missione e non alla propria cura. Adesso sappiamo quello che tutti intuivano: Papa Francesco non era guarito. Papa Francesco a 88 anni non poteva guarire, poteva guadagnare tempo proteggendosi: ma invece non ha rinunciato, fino all’ultimo alla sua attività pastorale e alla sua missione diplomatica. Lo avremmo dovuto capire dal poncho: il Papa con il poncho era la rottura di qualsiasi protocollo, l’abbandono di ogni liturgia.

Il Papa metteva l’obbligo di fare davanti a qualsiasi altra cosa, e l’ultima immagine ufficiale è quella del pontefice di profilo, che ascolta, quasi interdetto il vicepresidente degli Stati Uniti, Jd Vance. La missione per una pace possibile (soprattutto in Ucraina) quella per cui era stato addirittura irriso, era e restava una delle sue priorità assolute, anche nel tempo della malattia più invalidante. Ma Francesco, glielo avevano spiegato i suoi medici, non avrebbe dovuto incontrare nessuno – se non in condizioni di profilassi assoluta – e non avrebbe mai potuto girare in sedia a rotelle in pubblico, o senza cannule di ossigeno nel naso, o coperto in modo precario da uno striminzito poncho che gli lasciava scoperta la schiena.

Ragioneremo nelle prossime ore del suo mandato, sulla portata della sua eredità: dodici anni di pontificato che ci hanno fatto dimenticare il prima. Ma, per quanto scossi dalla notizia, molto si può dire: a me pare già evidente che questo Papa, ha lasciato una traccia profonda in tutti noi, perché in appena dodici anni ha cambiato faccia al Vaticano, ha ringiovanito la più antica delle istituzioni planetarie, è diventato un protagonista assoluto, non solo religioso, della scena mondiale, perché ha stravolto tutte le mappe e tutti codici noti nel racconto del potere. Si presentò con quella auto descrizione periferica, tenne la sua prima messa importante su un altare di relitti di barche, scelse come residenza la frugale stanzetta di Santa Marta, invece dei lussuosi appartamenti del Vaticano, la vicinanza delle suore di Santa Marta al posto di quella dei Cardinali.

Subì attacchi di ogni tipo, persino dentro la Chiesa, mentre predicava il suo Vangelo sobrio e testardo, il Vangelo degli ultimi. Era stato gesuita e si fece pontefice francescano, passando – anche simbolicamente – dalla complessità alla semplicità – adesso ripercorreremo il filo della sua bellissima e complessa storia, avendo chiaro che la Chiesa di Roma ha perso un gigante. Il Papa degli ultimi, dei più deboli, di quelli che nessun altro difende, solo ora visibile nella sua grandezza, lascia Il mondo orfano. Ed esige – non solo da un conclave, ma da tutti noi – un’eredità che consenta al mondo di non disperdere la potenza iconoclasta di di una passione vissuta in poncho.


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