Luca Telese
Roma – L’urlo di rabbia è arrivato dalle colonne del Corriere della sera, per bocca dell’ex first lady della Quercia Anna Serafini, che tutti i giornali accreditavano come sicura esclusa dalle liste elettorali: «Io non sono come Fassino, per il posto in lista lotterò con le unghie e con i denti!». E poi, subito dopo, con frasi molto pesanti, fuori dal coro: «Come avevo detto, Veltroni sta preparando la pulizia etnica. Ma se pensano che io stia zitta, che faccia la vittima senza parlare si sbagliano di grosso! Già ero una persona libera prima, figuriamoci ora che non sono più la moglie del segretario». La Serafini ieri diceva quello che molti suoi colleghi appesi ad un filo non hanno il coraggio di dire.
Certo, «la pulizia etnica», per ora è una ridda di voci che hanno iniziato a terrorizzare gli uscenti. Ma anche il rischio concreto che uno stato di oggettivo «arbitrio» che si è creato nei vertici del Pd renda possibile l’esclusione persino di qualche ministro uscente (ad esempio Giovanna Melandri, che malgrado la giovane età ha già tre legislature sulle spalle) o persino Livia Turco (una «veterana», ormai, fra le donne in parlamento della Quercia) che avrebbe anche lei bisogno dell’agognata deroga. Nei suoi discorsi Walter Veltroni ha iniziato a parlare di «grande rinnovamento», di «facce nuove» in Parlamento, del suo desiderio (lo diceva solo due sere fa da Enrico Mentana, a Matrix) di «riportare nelle assemblee elettive gente concreta, operai, gente che prende lo stipendio e la busta paga».
Intenzioni più che lodevoli, che però, combinate con le bozze statutarie, gli annunci ufficiosi, i primi casi-simbolo e il problema delle tante tribù del Pd che cercano rappresentanza istituzionale, ha già creato un effetto-panico. Il primo problema, per esempio, è già grosso come una casa. Le regole ancora non ci sono. O meglio: per ora esiste solo una «bozza di statuto» che prevede un limite di «tre legislature». E che le eccezioni a questa regola saranno al massimo il 10% dei parlamentari uscenti del partito. Ma la bozza sarà approvata solo il 16, dall’Assemblea Costituente richiamata in servizio per l’occasione a Roma. E già su questi due termini apparentemente chiari si aprono problemi interpretativi. Prendete la Melandri. Ha iniziato una legislatura nel 1994 (fu l’unica progressista eletta alla Camera a Roma), un’altra nel 1996, un’altra nel 2001, un’altra nel 2006. Ma due di queste legislature quattro (1994 e 2006) sono incomplete. Come devono essere considerati, i termini previsti dallo Statuto? Tre legislature complete? Quindici anni in Parlamento? Sono moltissimi fra gli uomini dei Ds e della Margherita ad avere iniziato nel 1994. E sono ancora di più quelli che raggiungono il termine di 15 anni, magari con qualche buco in mezzo. E’ il caso di Anna Serafini, che ha fatto quattro legislature, ne ha saltata una, ed è stata rieletta nel 2006. Per lei il timer non si dovrebbe azzerare? E quelli che hanno ottenuto mandati in altri partiti da poco confluiti nel Pd? Insomma, un vero terremoto in cui nessuno ha certezze. Chi deciderà, veramente? Dopo il voto del 16, in realtà, tutto verrà comunque delegato ai dirigenti più vicini a Veltroni, perchè sarà il coordinamento politico del partito ad emanare «il regolamento elettorale». E sarà quel testo ad allargare o restringere le maglie che attualmente possono essere interpretate in modo opposto. Certo, i primi a temere la «pulizia etnica» sono i dalemiani. Non è un caso – infatti – che nel decennale di Italianieuropei, Roberto Gualtieri, l’intellettuale più vicino a Massimo D’Alema avesse lanciato un messaggio molto chiaro al sindaco di Roma: «Un grande partito ha bisogno di democrazia soprattutto nella scelta delle candidature…» E ancora: «Le primarie non possono limitarsi a ratificare in modo plebiscitario decisioni prese altrove, ma devono offrire ai cittadini una effettiva capacità di scelta a partire dall’elezione degli organismi dirigenti e dei candidati».
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